Anteprima 09/05/2014:  Lavori in corso per un documentario/film sul rapimento di Francesco Agnello. Il giorno 28/04/14 con il regista Giovanni Massa sopralluogo nella grotta del Bosco Cavallo dove il giovane Agnello è stato tenuto prigioniero. Oltre al regista giovanni Massa della Ferribotte film era presente Marta Roversi, Fabrizio Riggio, Paolo Sanzeri  e Benedetto Alessi che gaha fatto da guida per raggiungere la grotta.  Francesco Agnello: "Mi tennero nella fenditura di un monte sul Platani, tra Cianciana e Cattolica Eraclea. A organizzare il tutto era stato un contadino delle nostre terre. Niente riscatto: mi liberarono polizia e carabinieri." Si riporta uno stralcio del libro Mafia Insoluta di Renato Candida allora Maggiore dei Carabinieri in servizio ad Agrigento che aveva coordinato le indagini sul rapimento:
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 Anteprima Foto del Dott. Francesco Agnello.

 PArtE sECoNDA
All’imbrunire del 18 ottobre 1955, in località
Savochello del comune di Cammarata, nella masseria
di sua proprietà, fu sequestrato il giovane barone
Francesco Agnello mentre col padre Stanislao,
dopo aver controllato la vendita di una grossa partita
di formaggio pecorino, stava accomiatandosi
dai dipendenti della tenuta.
Avvertito del crimine, con alcuni sottufficiali,
mi recai a Cammarata, grosso centro al confine con
la provincia di Palermo, ove giunsi tra le ventuno
e le ventidue. Letti in fretta i verbali di denuncia e
quelli dei sommari interrogatori, mi recai in casa
dell’amministratore della proprietà Agnello, Giuseppe
Cimò. Lì, in una stanzetta ammobiliata modestamente,
era ospitato l’anziano barone. Un signore
alto e asciutto, d’aspetto deciso. Raccontò
che dopo aver effettuato col compratore la verifica
dei formaggi, nel cortile antistante il fabbricato
scambiava parole di saluto coi dipendenti quando,
all’improvviso, erano comparsi tre giovani a viso
scoperto, armati di fucili da caccia:
“Questo sant’uomo di Cimò pensava fossero
cacciatori di passaggio; poiché piovigginava, li in-

vitò a ripararsi; gli offrì persino del latte appena
munto”.
“Ha ragione il signor barone, ha proprio ragione:
soltanto un minchione come me poteva pensare
che fossero cacciatori” intervenne Cimò.
“Stai zitto” gli intimò il barone. “Signor maggiore,
a quell’ora, tre giovani, capisce, giovani, non
potevano essere cacciatori di passaggio. Che potevano
cacciare? Quei malviventi, senza badare a
Cimò, spinsero da una parte mio figlio, affidandolo
ad altri due banditi sopraggiunti. Uno di essi tirava
un cavallo per la cavezza. Ci derubarono dei pochi
valori che avevamo addosso e senza tanti complimenti
ci rinchiusero in una stanza del pianterreno,
che è il magazzino del formaggio. Angosciato
com’ero, e come sono in questo momento, non vidi
e non udii niente. Il curatolo però sentì dei banditi
che, rivolto a mio figlio, avevano comandato: ‘Salisse’.
Dopo qualche minuto, grazie agli attrezzi di
ferro che c’erano nella stanza, riuscimmo ad aprire
la porta. Corremmo fuori, ma era quasi buio. Cimò,
che ha la vista buona, vide il gruppo con mio figlio,
portato a cavallo, ch’era ormai lontano”.
“Come ombre vidi, signor maggiore, e il baroncello,
che è di corporatura robusta, meschino,
si dondolava sulla bestia. Dovevano essere diretti
verso Santo Stefano Quisquina o Castronovo o chi
sa dove”.
“Mi duole” risposi, “mi duole, barone, quanto


è capitato; e soprattutto mi rammarico della completa
mancanza di esperienza in questo genere di
così odiosi crimini. Stia certo, però, che porrò ogni
impegno e puntiglio, e con me i miei carabinieri,
per individuare i malviventi e il luogo ov’è custodito
suo figlio e liberarlo”.
Il barone tentennò il capo con evidente amarezza
e, asciutto asciutto:
“Ne sono certo e la ringrazio, ma la buona volontà
non basta; senza offesa per lei, non posso nasconderle
che nei casi di sequestro di persona la
mancanza di esperienza è davvero sconfortante”.
E alterandosi:
“dico, ma che specie di governo c’è a Roma?
Fanno tante chiacchiere, a parole mettono a posto
tutto e mandano qui un ufficiale continentale che,
mi scusi l’espressione, in questo malaugurato caso
è come un pulcino bagnato”.
Non volli controbattere il vecchio, e sviai il discorso:
“Lei vive a Palermo. Chi poteva sapere della
sua venuta a Savochello per la vendita dei formaggi?”.
“Soltanto Cimò, che è come un parente”.
Sa, quando è prevista la visita del padrone,
non è escluso che il giorno prima, anzi penso sia
doveroso farlo, ci si dedichi con maggiore cura alla
pulizia dei locali e delle bestie”.
“No, è gente fidata. Si può dire cresciuta nella

 

masseria, qualcuno addirittura vi è nato. D’altra
parte il nostro arrivo è stato notato fin dal mattino
presto da tutta la gente di Cammarata ed escludo,
anche se le sembrerà azzardato, che ci possa essere
persona di Cammarata implicata nel sequestro di
mio figlio”.
Chiesi:
“Quando avrete, come dovrete avere, la richiesta
di riscatto, per telefono o per lettera o con
qualsiasi altro mezzo, informerete l’Arma o la polizia”.
Senza peli sulla lingua, scontroso, il barone
disse:
“Mai più. Preferirò trattare in segreto. Non voglio
che mio figlio, per qualche vostra imprudenza,
possa rimetterci la vita”.
Subito se ne uscì con una proposta, a dir poco,
sconcertante:
“Se lei riesce a far liberare, temporaneamente,
il mio campiere X, le assicuro che in non più di una
dozzina di giorni mio figlio sarà a casa”.
“Che intende dire? Far liberare il campiere?”.
“È in carcere sotto l’accusa di omicidio”.
“È mafioso?”.
“Mafioso? Che significa? È uomo che non perdona
né offesa né sgarbo. Lo faccia liberare e mio
figlio, con un fischio, sarà tolto dalle mani dei sequestratori.
E può credermi se le assicuro che il
campiere, portato a termine l’incarico, farà il suo


dovere rientrando in carcere. Me ne faccio garante”.
“Se il suo campiere, come dice lei, può tanto,
basterà che dal luogo in cui si trova lanci il fischio
e sarà esaudito”.
Il vecchio non replicò, limitandosi a esprimere
il suo disappunto scuotendo la testa e brontolando
qualche cosa che non riuscii a percepire.
L’incontro ebbe termine a mezzanotte passata.
Pioveva a dirotto e me ne andai in caserma. Chiamai
per telefono il comando di Agrigento e ordinai
che il mattino successivo, prima dell’alba, si
portassero a Cammarata una quarantina di uomini
al comando del capitano Brattelli.
Intanto vidi sul tavolo un messaggero da Palermo
che preannunciava la visita del generale comandante
della Brigata.
Detti poi uno sguardo ai locali e, vista una camerata
vuota, mi sdraiai su una branda senza spogliarmi.
Non abituato a dormire vestito e con la
luce che entrava dalla porta a vetri, non riuscii a
chiudere occhio. Il pensiero ritornava sul vecchio
barone. Strano personaggio, ancora pieno di vigore,
che alla maniera degli antichi feudatari riteneva
di poter debellare un gruppo di mafiosi spingendogli
contro altri mafiosi di più trista fama.
Mi arrovellavo sul delitto per il quale ero chiamato
ad indagare e non riuscivo a escogitare una


qualsiasi tecnica d’inizio. Che cosa dovevo fare?
Era la domanda che continuavo a ripetermi fissando
il muro di fronte.
Poco dopo le otto, effettuata una breve ricognizione
a Savochello e constatato che la prolungata
pioggia aveva cancellato ogni impronta degli
uomini e del cavallo, rientrai a Cammarata.
Giunse il generale accompagnato dal comandante
del gruppo di Palermo. Spiegai come
si erano svolti i fatti, secondo le testimonianze
raccolte tra i parenti e in particolare quella del
padre del sequestrato. Dissi che era la prima volta
che mi capitava di indagare su un delitto di questo
genere; non nascosi che mi sentivo un po’ a disagio.
Non avevo alcun elemento idoneo a dare un
concreto indirizzo alle indagini, ma fin dal mattino
presto una cinquantina di carabinieri stavano
effettuando un rastrellamento a pettine lungo il
percorso presumibilmente seguito dai sequestratori.
Gli uomini nel corso del rastrellamento
avrebbero ispezionato casolari, pagliai, grotte e
tutti quegli anfratti che potessero apparire idonei
come nascondigli. Dovevano, altresì, identificare
pastori e contadini e accertare la loro reale residenza,
prendendo nota dei dati raccolti. Avevo
poi intenzione di svolgere indagini anche in altri
settori.


“Il rastrellamento va fatto, ma verrà poco su
un terreno così accidentale e impervio”. E poi valli
a pescare adesso quei delinquenti” disse il generale,
puntando il dito sulla carta topografica stesa
sul tavolo. “Verrà però a tenere in allarme i sequestratori.
Vorrei sentire le intenzioni che lei ha per
indagare in altri settori”.
“Intanto effettuare indagini puntigliose e mirate,
evitando di procedere a fermi di persone per
mero sospetto. Inviterò i comandi di ufficiali e le
stazioni a raccogliere qualsiasi indizio e a riferirmelo,
in modo che abbia un ampio quadro della situazione.
Secondo me, i primi indizi potrebbero essere
raccolti presso i rivenditori di commestibili, ché i
confidenti promettendo loro denari, sempre che il
Ministero degli Interni voglia sganciarne, per poter
ottenere qualche confidenza utile e nei limiti della
credibilità. In sintesi, signor generale, questo è il
programma per le indagini preliminari. L’Arma di
Palermo dovrebbe, nel frattempo, aiutarmi con
possibili intercettazioni telefoniche e postali sulla
famiglia del sequestrato, non escludendo una
cauta vigilanza sulle abitazioni dei familiari per
poter osservare eventuali movimenti sospetti di
persone sconosciute”.
“Bene, bene. Non si preoccupi per la sua mancanza
di esperienza, quasi tutto avviene una prima
volta. “importante è avere idee chiare”.

Volle poi esaminare il luogo del sequestro.
Sul posto trovammo l’amministratore Cimò,
uomo di statura piccola, saltellante e con occhi vivacissimi.
Scusò il vecchio barone dicendo che era
accorso a Palermo, anche per confortare la moglie.
Ripeté il racconto di quanto era accaduto il giorno
innanzi e ci fece visitare i locali del vasto fabbricato
adibito a masseria. A pianterreno vi erano le stalle,
uno stanzone ad uso magazzino dei formaggi e del
latte e un altro stanzone per il deposito degli attrezzi.
Al piano superiore c’erano diverse stanze,
dotate di brande e attaccapanni, ove dormiva parte
del personale. Il generale osservava ogni cosa in silenzio
e con molta attenzione.
Cimò colse un momento, in cui l’alto ufficiale
scambiava parola col comandante di Palermo, per
sussurrarmi:
“Ho il figlio più anziano sacerdote gesuita”.
Sulla via del ritorno, il generale disse:
“Caro Candida, è un grosso e intricato nodo
da sciogliere. Lei si trova su una barca piena di
buchi, in alto mare. Il mio augurio è che sia buon
marinaio e sappia pilotarla fino al porto. Le invierò
alcuni sottufficiali esperti in questo genere di delitti.
Pochi, due o tre al massimo”.
Alle soglie della caserma, trovammo un nugolo
di giornalisti in attesa di notizie.
Soprattutto il corrispondente d’un giornale

femminile stava addosso all’ufficiale, continuando
a recitare una serie di filastrocche:
“Perché è stato sequestrato il barone? È delitto
di mafia? Potete darci qualche nome? c’è già una
richiesta di riscatto?”.
Il generale, irritato per l’insistenza e per l’atteggiamento
molesto e confidenziale dell’uomo, lo
spinse indietro:
“Il maggiore, che è il responsabile delle indagini,
grazie alla sua competenza professionale, ha
già identificato i malfattori, criminali comuni, e ha
dato ordine di mettergli il sale sulla coda. Perciò
non sfuggirano”.
Quello restò allocchito e non riuscì ad articolare
verbo.
Dopo qualche giorno sul settimanale femminile,
in copertina, apparve un titolo stampato a
grossi caratteri: ‘Il generale dei carabinieri vuol fare
catturare i sequestratori del barone Agnello facendogli
mettere il sale sulla coda’.
Nei giorni successivi giunsero a Cammarata il
tenente Mario Sateriale e alcuni sottufficiali del comando
di Palermo.
Furono approntati diversi nuclei che furono
dislocati, con compiti informativi e di osservazione,
a Santo Stefano Quisquina, ad Alessandria
della Rocca, a Cianciana e a Siculiana, luogo di origine
della famiglia Agnello.

L’8 ottobre, come di consueto, si presentò in
ufficio il commissario di P. S. Cataldo Tandoj, (1) che
collaborava nelle indagini. Ad un tratto se ne uscì
con queste parole:
“Una giacca di velluto molto, molto, importante,
lei mi capisce, mi ha chiesto il favore di dirle
che vuole un abboccamento segreto con lei a proposito
del sequestro Agnello. Mi permetto di consigliarle
di aderire all’invito, anche se lo considera
inusuale”.
“Allora questo personaggio, come dice lei
molto importante, è mafioso? E lei lo conosce?”.
“Se le ho detto che è una giacca di velluto, vuol
dire che non soltanto è mafioso, ma è anche capo
mafia. Nel genere di crimini su cui si sta indagando
non bisogna sottilizzare. Si raccoglie le spiga da
dove viene viene”.
“Le ho chiesto, giacché lo conosce, di dirmi
chi è?”.
“Maggiore, non stia a cavillare. Si fidi. Lo
conosco ma non posso dirle il nome. Poi, mi
creda, anche sapendolo non ne avrebbe maggiore
aiuto”.
“Va bene” dissi. “Andrò all’abboccamento.
Quando e dove?”.
(1) Poi ucciso da mafiosi di Raffadali.

“Se le fa comodo, domani sera verso le sette,
al tempio della Concordia. Vada tranquillo e solo”.
Restai sorpreso dalla proposta e ne accennai
al maresciallo Bucca.
Il sottufficiale, al principio, sgranò gli occhi,
poi si riprese:
“Considerando bene la cosa, mi permetta di
suggerirle di andare. Male non gliene può venire;
poi, quando si è in ballo, bisogna ballare. Soltanto
occorre capire subito che cosa quel tizio vorrà in
cambio delle confidenze che farà, vagliarle e considerare
se il prezzo che si dovrà pagare vale la
candela”.
“Questo lo vedremo… Non capisco, tuttavia,
sempre che si tratti di informazioni, perché non le
dà al dottor Tandoj”.
Il maresciallo abbozzò un sorriso malizioso:
“Vorrà, in cambio, cose che il dottor Tandoj
non può dargli”.
Alle sette fui al tempio della Concordia; nel buio
più fitto aguzzavo la vista per cercare di distinguere
qualche cosa che si muovesse tra le colonne.
“Bacio le mani, signor maggiore. Resti pure
dov’è, ché che qui non ci possono essere orecchie
indiscrete”.
“Chi è lei?”.
“Mi consideri, scusi la confidenza, soltanto un
amico. Un amico e basta”.

Ero quasi pentito d’aver accettato l’incontro,
non per timore di danni fisici alla mia persona, ma
per la ripugnanza che dovevo verso i convegni
clandestini:
“Si è messo di mezzo un funzionario di polizia
e le ha fatto da mallevadore. Lei parla di amicizia
e intanto si cela nel buio, quasi fossimo qui a cospirare.
Non mi piace non vedere la faccia della persona
con cui parlo. Che specie d’amicizia è la sua?”.
Intanto, cercavo almeno di indovinare la sagoma
del mafioso; riuscivo solo a scorgere un’ombra
più scura del buio che ci circondava. Sarà pure
vestito di nero, pensai.
“Lei non è delle nostre parti e questo la rende
diffidente”, disse l’ignoto mafioso, ma non mi offendo.
Incontrarci di giorno, ovunque sia, signor
maggiore, comprometterebbe del tutto il piano che
le esporrò”.
“Sono proprio curioso di sapere in che consiste
questo suo piano”.
“Allora vengo subito al sodo. Lei non si deve
più preoccupare del sequestro Agnello. Grazie a
qualche amico, riuscirò a fare luce completa sull’affare
e lei avrà la soluzione del caso bella e servita
su un piatto d’argento”.
“Che cosa intende lei quando dice che mi dà
la soluzione su un piatto d’argento?”.
“Abbia pazienza. Appena possibile, ma non
dovrà aspettare molto, le telefonerò e le indicherò

l’ora e il luogo ove potrà trovare il barone Agnello
e liberarlo”.
“Potrò liberare il barone?” dissi sentendomi
sempre più inquieto.
“Sì, lei lo libererà. In pratica io avrò già eliminato
i custodi con l’aiuto di qualche amico”.
“Lei è pazzo. Non intendo che lei o altri possiate
eliminare gli eventuali sequestratori. Anzi, se
qualche cosa del genere dovesse accadere, il primo
ad essere arrestato sarà lei. Anche se non riesco ora
a vederla in faccia, stia certo che non mi sfuggirà”.
Me ne andai.
Raggiunta l’automobile, presi a meditare:
Quel mafioso è quasi riuscito a farmi gelare il sangue;
le sue parole, certo, sottintendevano un disegno
orrendo.
Entrato in caserma, fui raggiunto da maresciallo
Bucca. Mi sfogai:
“Un buco nell’acqua è stato. Una trama infame
aveva in mente quel tizio. Come fa Tandoj a
fidarsi d’un malvivente simile?”.
“Signor maggiore, prima di tutto le dico che
ho scoperto chi è quel cornuto”.
“E come ha fatto?”.
“E che voleva che lo lasciassi solo? Son venuto
con le dovute cautele e mi sono appostato in modo
che non mi vedessero”.
“E chi è?”.
Un maestro di Roccanera. L’ho riconosciuto

quando è passato vicino alla chiesetta di San Nicola.
Era solo; si vede che non voleva far sapere
dell’incontro neppure ai suoi compari. Fino ad
oggi, a parte l’amicizia col capo delle guardie campestri
del paese, nota pampina, (1) non ha dato motivo
a sospetti. Tra l’altro è anche giudice conciliatore.
Bisognerebbe, se lo ritiene opportuno, farne
cenno al comandante della stazione, che è un mareciallo
in gamba, perché lo tenga d’occhio e cominci
a raccogliere dati utili per poterlo proporre
per il confino”.

 .....

.....

 

Le indagini per il sequestro Agnello non avevano
tregua, ma non si giungeva a cavare un ragno
dal buco.
Entrò in ufficio il maresciallo Sedita.
“Che c’è di nuovo?” chiesi, vedendolo saltellare
sui talloni.
“Sul fronte del sequestro Agnello, purtroppo,
niente. Però ne ho saputa una bella: A C., durante
alcuni lavori di restauro in quell’ospedale, un muratore,
sollevato un tombino, ha avuto la sorpresa
di trovarvi dentro un centinaio di portamonete e
portafogli. Vuoti, si capisce. Roba certamente sottratta
ai ricoverati, nessuno dei quali ha però presentato
denuncia”.
“In questo momento, maresciallo, abbiamo

ben altra gatta da pelare. Altro che impantanarci in
portamonete presumibilmente rubati”.

 

....

....


Ascoltai in silenzio, poi dissi:
“È un’azione truffaldina, bella e buona, ma
adesso siamo troppo presi dalle indagini per il sequestro
Agnello e non ci possiamo impelagare in
altre operazioni che assorbirebbero troppo tempo.
Capisce bene che è molto più importante la vita di
un sequestrato che una truffa, tanto più che la si
potrà perseguire in qualsiasi altro momento. Perciò,
caro Sedita, abbia pazienza e concentri la sua
energia sul sequestro”.
Il maresciallo restò un po’ deluso, e il discorso
finì lì.

“In quale trappola infame mi stava buttando
lei”, dissi incontrando il commissario Tandoj.
“Che vuole che le dica… Mi dispiace. Riconosco
che quel tizio ha esagerato, però mi creda, non
lo facevo capace di tanto. Me ne scuso con lei e mi
auguro che questo fattaccio non abbia a incrinare i
nostri buoni rapporti di collaborazione e, se mi
consente, di buona amicizia. Lo consideri uno dei
tanti incerti del nostro mestiere”.
“Non capisco come ci si possa fidare di un essere
sinistro di quella fatta, capace di mandarla a
finire in galera. Vuole un mio consiglio? Approfitti
del frangente e lo proponga per un bel periodo di
soggiorno obbligato, così se lo leva dai piedi. Se
vuole, ne parlo io stesso al questore”.
“Lasci stare, per carità. Passerei soltanto dei
guai. È acqua passata per lei, e le rinnovo le mie
scuse… Pensiamo al sequestro Agnello”.
“Ci pensiamo, sì, ma non mi va proprio giù
che un tipaccio così pericoloso continui a circolare
tramando diavolerie”.
E nel mio intimo pensai: Aspetta che sia conclusa
la questione Agnello e vedrai come ti sistemerò
il tuo confidente.
Le indagini erano sempre a un punto fermo e
continuavo a rodermi col pensiero sul conto del mafioso
e sulla sua incredibile proposta. Mi bruciava
non aver pensato di agguantarla seduta stante.

Chiamai il tenente Sateriale:
“Lei sa che mi sono incontrato con un mafioso
che si è rivelato un delinquente della peggiore specie;
voleva offrirmi, così disse, la soluzione del caso
Agnello su un piatto d’argento. ora, mi segua bene.
L’offerta non aveva lo scopo di mettere in mostra
la sua potenza di mafioso, e questo non è nel costume
della mafia. Il Mammona, per portare a temine
il suo disegno criminoso, doveva avere notizia
certa che almeno uno dei sequestratori fosse di
un paese limitrofo al suo. E non è azzardato credere
che ne conoscesse nome e soprannome”.
Il tenente convenne.
Dissi ancora:
“Mi fa rabbia non aver messo subito a punto
tale evidenza”.
“Non si può pensare a tutto, quando si è così
pesantemente impegnati”.
Decidemmo di recarci ad Alessandria della
Rocca, paesino non molto distante a Cammarata e
dal paese d’origine del mafioso.
Il comandante della stazione, quando gli spiegammo
lo scopo della visita, cioè di avere possibilmente
qualche notizia utile all’indagine, con
molta cautela ci fece incontrare con Tre Nasi, suo
confidente.
Costui, sciatto, mingherlino, d’aspetto insignificante,
tanto da apparire quasi quasi come un pupazzo
creato in carne ed ossa da una natura alticcia,

dopo uno sproloquio di frasi mozze, con riferimenti
astrali, di santi, di demoni e di bestie, dopo un’ora
e più di parole che non erano parole, mi fece perdere
la pazienza tanto che, rivolto al maresciallo, che
era mio conterraneo, esclamai:
“Non è cosa con questo qui”.
Il sottufficiale mi rivolse uno sguardo scoraggiato
e prese a parlargli in un dialetto per metà siciliano
e per metà pugliese e finalmente riuscimmo
a sapere che il mattino del sequestro Agnello tre individui
erano scesi dal treno di Contuberna; scalo
sito tra Santo Stefano Quisquina e Cammarata,
portando strani involti, piuttosto lunghi, e uno
zaino di tipo militare.
“Che tipi erano?”, chiesi.
“Come nui autri”.
Il particolare delle tre persone scese dal treno
allo scalo di Contuberna, che nei lunghi fagotti
probabilmente nascondevano armi, mi diede il
convincimento che i componenti della banda dei
sequestratori fossero di diversi paesi. Tuttavia, al
momento, non mi fornì alcun utile indizio.
I comandi dell’Arma di Agrigento e quelli di
Palermo siti al confine delle due province erano all’erta
e cercavano notizie, qualche segno che ci ponesse
in condizioni di dare la caccia ai banditi.
Telefonai al comandante della stazione di
Santo Stefano Quisquina. Mi disse che un filo di

pista utile lo aveva, ma preferiva parlarmene a
voce.
C’incontrammo e il sottufficiale mi raccontò
d’aver saputo che alcuni giorni prima del sequestro
due presunti carabinieri, nella campagna di
Prizzi, avevano tentato di penetrare nel fabbricato
dell’azienda agricola di certo Salvatore Lima. Il
possidente, notate le uniformi palesemente raffazzonate
dei due, aveva fiutato il trucco; barricandosi
in casa, da una finestra tira delle fucilate in aria per
cercare di attirare l’attenzione di qualche passante.
Il tentativo dei due fallì ma, prima di allontanarsi,
riuscirono ad arraffare magro bottino rapinando
dei loro scarsi avere i pochi contadini presenti.
“Indizi sui due?”.
“Giovani. Uno piuttosto alto. Dalla parlata
sembravano della zona: l’accento era di gente di
queste parti, forse di Santo Stefano o di Cianciana
oppure di Raffadali”.
“Nessuna altra notizia? Nessuna confidenza?
Li avete o no questi benedetti confidenti?”.
“Signorsì, e anche buoni. Il mio è persona che
riscuote rispetto, e quando dice una cosa è più che
vangelo. Mi ha detto che in paese o nelle vicinanze
c’è qualcuno invischiato, ma insiste nel confermare
che la testa della combriccola occorre cercarla altrove
e ripete: Cianciana o Raffadali”.
“Bisogna strapparvele con le pinze le parole.

Ci risentiremo e, nel frattempo, stia con gli occhi
bene aperti”.
“Signorsì. Comandi.

 

...

...

 

 

Già, con lei non c’è da dubitarne. Però non
dimentichiamo che in questo periodo tutti i nostri
sforzi debbono essere rivolti a identificare i sequestratari
del barone Agnello e a localizzare la sua
prigione. Tremo, lei comprende, all’idea che il giovane
possa perire per inedia. Pensi, a parte la pena
per la perdita di una giovane vita e alla tragedia
della famiglia, alla cagnara dei giornali. Ci indicherebbero
moralmente. Guazzeremmo nel fango
che ci scaricherebbero addosso. Perciò, signor maggiore,
le concedo non più di due giorni per sbrigare
queste due faccende».

 

 

...

...

 

puntualmente, come aveva preannunciato per
telefono, il colonnello arrivò alle otto precise accompagnato
dal maggiore Palombi.
In ufficio sedette dietro la scrivania, il maggiore
Palombi dirimpetto, a destra, io accanto al
collega.
Il colonnello chiese a che punto fossero le indagini,
ché la stampa premeva per avere notizie,
per non parlare dei superiori, e lo disse con tono
condiscendente, con ironia appena accennata nel

sorriso malizioso che accompagnava le parole.
Risposi che qualche indizio l’avevo su due
giovani di Cianciana, ma che era troppo presto per
dire che ero pronto all’azione.
«Ne succedono delle belle» disse il colonnello
cambiando discorso. «Sono stato a rapporto con alcuni
prefetti e questori da un ministro. Ha parlato
di vari argomenti e, tra l’altro, ha sollecitato un
maggiore impegno nella lotta alla criminalità organizzata
(con che mezzi, poi?). Improvvisamente
se ne viene fuori con un tema impagabile: «E non
state a scrivere i soliti si dice a carico di personalità
politiche che, secondo certi vostri dipendenti, con
eccessivo a mal riposto zelo, intrallazzano persino
con la mafia. Non solo. Dicono anche che s’intrigano
nei fatti più intimi, addirittura familiari. Sapete
che vi dico? Molti danno l’impressione di essere
peggio degli anticlericali. Fanno una crociata
alla rovescia e viene fuori tanto rumore e niente
fatti. Quando viene fuori davvero qualche cosa,
resto di sale. Si tratta sì di regali, ma per matrimoni
di figli e ricorrenze speciali. E come fa il povero
parlamentare a sapere che tizio è mafioso o camorrista.
E, infine, lasciatemelo dire: chi non ha
peccato scagli la prima pietra». Ha accompagnato
quest’ultima battuta con mimica da teatrante suscitando
l’ilarità, anzi grosse risate generali, ma
quella faccia di bronzo non si è scomposto e ha
scambiato l’ilarità per compiacenza».

....

...

 

il maggiore Palombi. Questa volta, finalmente,
siamo sulla strada giusta».
«La famiglia» disse il maggiore «ha ricevuto
la richiesta di riscatto: sessanta milioni».
«Scusate se è poco».
«I sequestratari vogliono incontrare un rappresentante
degli Agnello per trattare. Il designato
dovrà percorrere a velocità moderata la statale Palermo
- Corleone - Agrigento passando per Santo
Stefano Quisquina, Cianciana e Raffadali. Deve essere
solo, su una vettura munita di un drappo
verde sporgente dal cofano. Noi di Palermo porremo
dei servizi sull’itinerario sino al confine della
provincia».
«Allora i parenti si sono decisi a collaborare?»
«Neanche per sogno».
«E come hai fatto ad ottenere queste notizie?»
«Abbiamo semplicemente intercettato la lettera
».
«Benissimo. Da parte mia disporrò servizi nei
punti, da studiare sulla mappa, da cui sia facile sorprendere
l’incontro».
Chiamai il capitano Brattelli: «Abbiamo grosse
novità. È previsto un incontro tra un rappresentante
della famiglia Agnello e i sequestratori».

«Mi scusi, come l’ha saputo?»
«M’ha dato la notizia il maggiore Palombi che
ha intercettato una lettera, ché la famiglia, almeno
ufficialmente non collabora».
Questo ad ogni modo è un bel passo avanti. E
l’incontro dove avverrebbe?».
«Sulla statale Palermo - Agrigento per Corleone.
Lei faccia preparare una quindicina di uomini
tra sottufficiali e carabinieri, tutti di una certa
età, fra i trenta e i cinquant’anni. Volontari e che
diano affidamento. In giornata li faccia adunare:
voglio vederli e parlargli. Mi fido della sua scelta».
«Comandi».
Un paio d’ore dopo, l’ufficio si riempì di militari
in borghese. Sembravano contadini e credo che
quasi tutti fossero originariamente campagnoli.
«Il signor capitano vi ha spiegato il compito
che state per assumervi: formerete cinque pattuglie
e dovrete appostarvi lungo l’itinerario Raffadali -
Santo Stefano Quisquina, almeno a un chilometro
fuori degli abitati. La strada è in quel tratto deserta,
salvo un gruppetto di case cantoniere disabitate. In
una di esse, quella più a monte e della quale vi darò
le chiavi, potrete trovare ricovero la notte dandovi
il cambio. Potrete anche farvi da mangiare, facendo
attenzione nell’accendere il fuoco; dovrete adoperare
legna molto secca evitando, di notte, che possano
filtrare luci. Non credo possano sorgere parti-


colari complicazioni per il servizio, tranne il malaugurato
caso che vi facciate scoprire. È un itinerario
con scarsa vegetazione, ma vi sono molti anfratti,
anche a ridosso della strada, nei quali è facile
appiattarsi e da cui si può avere una buona visibilità
con sterpi e piante secche. Spero, con questo servizio,
di non rendervi la vita difficile: è questione
soltanto di qualche giorno. Lo scopo è di spuntarla
con questi delinquenti e per poterla spuntare è essenziale
poter rilevare la targa dell’auto usata dai
sequestratori, con la speranza che non sia un’auto
rubata. Ho finito. Siete i miei carabinieri e perciò so
che posso contare su di voi. Il servizio inizierà questa
sera. Buona fortuna».

...

...

 
I carabinieri dislocati lungo l’itinerario dell’incontro
tra il familiare degli Agnello e i sequestratori,
il terzo giorno dall’inizio del servizio, ebbero un’insperata
fortuna: all’imbrunire del 27 novembre una
Fiat 600, con la bandierina verde che sporgeva dal
cofano, incrociò una Fiat 1100 targata Palermo, sotto
il posto di osservazione presso Raffadali.
Le auto si fermarono e dalla Fiat 1100 scese un
giovane di statura piuttosto alta, che prese a discutere
con il rappresentante della famiglia.
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I militari non poterono ascoltare ciò che i due
si dissero; ma riuscirono a rilevare i contrassegni
dell’auto usata dai banditi.
Ricevuta comunicazione del fatto, inviai il tenente
Sateriale a Palermo, con l’incarico di recarsi
presso il comando dei vigili urbani di quella città
per identificare il proprietario della vettura.
L’auto apparteneva a un noleggiatore. Un vigile
lo avvicinò e adducendo che l’autovettura,
nelle prime ore del giorno precedente, transitando
per le vie della città non aveva rispettato i segnali
semaforici, riuscì a sapere il nome di colui che
aveva noleggiato l’automezzo: Giuseppe Di Maria
da Cianciana.
Avuta conferma dei nostri sospetti, gli posi
alle calcagna due bravi sottufficiali con la speranza
che una mossa incauta ci offrisse la possibilità di
localizzare il posto dov’era custodito il sequestrato.
I giorni purtroppo passavano e noi eravamo
sempre incerti sul da farsi.
D’altra parte l’autorità giudiziaria ci esortava
alla massima cautela perché un atto precipitoso poteva
provocare l’uccisione del sequestrato. Del
pari, il trascorrere del tempo ci faceva temere che
il giovane Agnello potesse soccombere per inedia.
Il pomeriggio del 7 dicembre, col maggiore
Palombi e con gli altri ufficiali del comando di
Agrigento, decidemmo di rompere gli indugi. Mi
recai dal procuratore della Repubblica per comu-
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nicargli la decisione. Il magistrato l’approvò raccomandando,
come sempre, massima attenzione e
prudenza.
Convocai il maresciallo di Cianciana: «Senta,
abbiamo la certezza che organizzatore del sequestro
sia quel tale Di Maria che lei ben conosce».
«Ah, è lui» mi interruppe il sottufficiale sprizzando
gioia, neanche avesse vinto un terno al lotto.
«Allora avevo indovinato».
«Bravo, proprio. Lei, da solo, deve fargli la
posta e, appena lo vede, lo apostrofa: «Di Maria,
che hai combinato a Palermo? T’hanno elevato una
sfilza di contravvenzioni. Giacché ci sei, vieni un
momento in caserma a firmare i verbali di notifica
». Certo, non è necessario che siano proprio
queste le parole. Gli dica quel che ritiene più opportuno.
Se, come ci auguriamo, riesce a portarselo
in caserma senza dare troppo nell’occhio, magari
prendendolo sottobraccio in modo confidenziale,
mi telefoni e mi dica qualche frase convenzionale:
non so, qui c’è una bella luna».
«Farò del mio meglio, non dubiti».
«Maresciallo, la riuscita dell’operazione dipenderà
esclusivamente da lei. La minima incertezza e
imprudenza può mandare tutto a carte quarantotto».
Passai più di un’ora con animo inquieto fino
a quando, qualche minuto prima delle venti,
squillò il telefono e il maresciallo diede la buona
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notizia del fermo. Avvertii il questore che inviò il
commissario Tandoj con una ventina di agenti. Insieme,
e con buon numero di carabinieri, ci ponemmo
in viaggio.
A qualche chilometro da Cianciana feci sostare
il grosso.
Giunti in caserma, trovammo Di Maria nella
sala d’aspetto. Lo feci perquisire e poi entrare in
ufficio.
«Lei è Giuseppe Di Maria?» chiesi.
«Mi comandi… Non capisco, il maresciallo mi
invita in caserma per delle contravvenzioni… sto
qui da più di un’ora e adesso c’è tanta confusione di
ufficiali e marescialli» disse con tono di disappunto.
Sul tavolo c’era il suo portafogli; lo presi e ne
esaminai il contenuto. Meravigliato, vidi che conteneva
un mazzetto di immagini sacre.
Guardai Di Maria scuotendo la testa: «Che ci
fai con tutti questi santini?».
Di Maria fece un viso volpino, ma fu un
lampo, e a bassa voce se ne uscì: «Perché mi guardino
dagli sbirri».
«Bravo. Però, temo che questa volta abbiano
voltato lo sguardo, ché fosse lei ha commesso un
peccato veramente grosso».
«Che peccato e peccato. Come tutti» e cominciò
a lanciare occhiate a dritta e a manca.
«Adesso le rinfresco un po’ la memoria. Che
mi sa dire del sequestro del barone Agnello?».
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Ebbe un’espressione di sorpresa. Farfugliò:
«Che ne so io».
«Allora non sa neppure che il barone è stato
sequestrato?».
«Questo lo so. Lo dicevano i giornali».
«Conosce Francesco Cimino?».
«Per forza, è del paese».
«È amico suo?».
«Amico… Come tanti».
«A me risulta che siete molto amici, ché avete
noleggiato assieme un’automobile a Palermo».
«Sissignore, questo è vero».
«A quale scopo?».
«Così, per divertimento» e con un sorriso
forzato «per vedere di caricarci sopra qualche signorina
».
«Vi crescevano i soldi. Chi ha pagato? Lei o il
suo amico?».
«Tutti e due».
«E della bandierina verde, che mi sa dire?».
«Che significa? Che è la bandierina verde?».
«Senta Di Maria, non faccia il tonto e dica
quello che sa. È stato visto dai carabinieri quando
con la macchina noleggiata a Palermo, vicino Raffadali,
si è messo a confabulare con un familiare
degli Agnello. Forse ha anche ricevuto dei soldi.
Quanto? Un milione?».
«Adesso mi ricordo. È vero questo incidente e
i calunniatori, disonorati, da sputarli in faccia,
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m’hanno costruito una tragedia. Maledetto il momento
che mi sono fermato. È che ho visto un conoscente,
non mi ricordo come si chiama, che stava
lì fermo con la 600. Gli chiedo se ha bisogno di
qualche cosa perché credevo che l’automobile fosse
guasta. Quello dice no grazie, e io riparto. Non ho
visto bandierine verdi e nessun milione. Se avessi
un milione, starei qui? Non c’entro io, glielo giuro
sulla Madonna Vergine. Un brutto destino il mio».
Con aria minacciosa e puntandogli un dito in
faccia, il maresciallo Pinzino, sottufficiale particolarmente
esperto inviato dalla legione di Palermo,
gli si buttò quasi addosso e prese a gridare: «Questo
dice cose che non stanno né in cielo né in terra.
Che ti sei cacciato in quella zucca, che siamo fessi?
Fai il romanziere o inventi favole? Signor maggiore,
questo me lo porto di là, che so io come cucinarlo».
Al mio sguardo sorpreso, ammiccò. Intanto Di
Maria cercava di tirarsi indietro. Stetti al gioco del
maresciallo: «Senti Di Maria, è meglio che lei parli
con me. Faccia attenzione a quello che le dico: se
un suo complice, Cimino o un altro, per malaugurata
supposizione pensa che lei è qui a cantare e,
nello stupido tentativo di far scomparire le tracce
del delitto, uccide il sequestrato, lei – oltre i vari
crimini di cui si è reso responsabile per cattivi consigli
– sarà processato per concorso in omicidio.
L’ergastolo non glielo leva nessuno. Invece se si
mette dalla parte della legge e dimostra serio pen-
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timento, certamente avrà qualche vantaggio nel
processo. Però deve far presto: ogni minuto che
passa può essere fatale».
Di Maria, sottocchio, sbirciava il maresciallo
Pinzino che lo teneva stretto per un braccio e lo fissava
con una grinta da far paura.
«Possiamo restare soli?» chiese.
«Certo, ma un carabiniere ci dev’essere per
forza».
Il maresciallo si allontanò con viso immalinconito.
«Allora, Di Maria, son qui che l’ascolto».
«È stata la malacompagnia che m’ha cacciato
un tarlo in testa».
E prese a raccontare degli approcci coi complici,
gente malvagia che gli aveva fatto credere che era
cosa da niente, dell’elaborazione del piano per il sequestro
e del suo svolgimento. Fece i nomi degli altri
manigoldi e indicò o paesi in cui risiedevano, suggerendo
di prenderli la notte stessa ché certamente
non se l’aspettavano. Precisò il luogo ov’era ristretto
il sequestrato, dichiarandosi disposto a far da guida.
Disse che il baroncino era tenuto prigioniero in una
grotta in contrada Malaserra, custodito da un complice
armato di pistola. Aggiunse che se pure avesse
spiegato, carta topografica alla mano, ov’era il posto,
senza la sua guida sarebbe stato impossibile raggiungerlo,
tanto impervio era l’itinerario.
Mi consultai con i colleghi e convenimmo di
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portarci alla località indicata con la guida del Di
Maria.
Mentre col grosso dei militari ci accingevamo
alla marcia, alcuni sottufficiali e carabinieri furono
inviati a Santo Stefano Quisquina e a Prizzi per catturare
gli altri sequestratori.
Solo uno di essi, certo Stefano Soldano, riuscì
per il momento a sottrarsi alla cattura.
Poco dopo le quattro, nel buio pesto, ebbe inizio
la marcia verso Malaserra. Percorremmo un
terreno aspro su sentieri appena tracciati e, per
ben due volte, passammo a zuppo il fiume Platani.
Dopo quasi due ore di cammino, giungemmo
sul posto. Pareti di roccia cingevano un avvallamento,
una specie di conca, e sul fianco di una parete,
ben celato alla vista da euforbie e ampilodemi,
c’era l’ingresso della caverna in cui era tenuto
il sequestrato.
Di Maria chiamò: «Castelli! Castelli! Vieni
fuori che ti dò il cambio».
Intorno, mentre albeggiava, guidati dagli ufficiali,
si erano disposti agenti e carabinieri con le
armi spianate.
Dall’antro, carponi, sbucò un individuo impugnando
una pistola. Era un essere minuto e sgraziato,
col viso appuntito e le orecchie a sventola talmente
grandi da farlo assomigliare a un pipistrello.
Si guardò attorno e, notati i numerosi militari con le
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armi spianate, buttò la pistola e disse: «Sono sequestrato
anch’io». «Pezzo di cornuto» disse Pinzino
che gli era giunto addosso; «ti caccio fuori le budella,
io» e lo scaraventò in braccio a due carabinieri.
Dopo ripetuti richiami, con gli abiti logori e
con palesi segni di sofferenza, fece capolino Francesco
Agnello, pallido in viso in modo innaturale;
plagiato com’era, nel sentire il chiasso gli era sorto
il dubbio che fosse giunta la sua ultima ora. Piangendo
si buttò tra le braccia del capitano Brattelli
che gli era più vicino.
Ispezionammo l’antro fetido e non so se mi
riuscirà di presentare alla mente di chi legge l’atroce
realtà di quel luogo torbido, ampio non più
di quattro metri e lungo forse tre. La parete a destra
dell’ingresso formava una sorta di gradino
largo mezzo metro circa e lungo quasi due, una
specie di mangiatoia, sulla quale era stato disposto
uno strato di paglia a conforto del prigioniero
che doveva giacervi.
L’aria era irrespirabile; e dovemmo farci luce
con torce elettriche. In un angolo trovammo un fagotto
con le uniformi da carabinieri usate da Di
Maria e da Francesco Cimino nel fallito tentativo
di rapina e di sequestro di persona in danno del
possidente Lima Mancuso.
Le confessioni dei colpevoli, secondo le quali
per puro accidente avrebbero saputo che c’era
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gente alla masseria di Savochello e che, per caso,
imbattendosi nel barone e considerando l’incontro
come occasione da non perdere, avrebbero effettuato
il sequestro, non ci persuasero. Il fatto che
erano armati e che si erano disposti in modo che il
barone non potesse sfuggire diceva chiaramente
che avevano ricevuto delle informazioni, tanto più
che la presenza del giovane in quel luogo non era
abituale, ma determinata dalla precisa circostanza
di dover contattare la vendita di formaggi prodotti
nella masseria, notizia di cui soltanto curatoli e pastori
erano a conoscenza.
Ci doveva dunque essere stato un informatore,
un basista, un supervisore dell’operazione.
Questa certezza si concretizzò a carico di un
giovane che lavorava nella masseria. Da un sommario
interrogatorio, avemmo l’impressione,
scialbo com’era, fosse un’anima semplice, un ingenuo.
Invece, recitava la parte da attore consumato.
Fu un errore l’averlo rilasciato dopo un interrogatorio
di routine, ma in quel momento le indagini
procedevano febbrilmente, preoccupati
come si era per la vita del sequestrato.
Il barone Agnello fu liberato alle prime luci
dell’alba dell’8 dicembre e gli interrogatori sommari
si conclusero il 15 o il 16 dello stesso mese.
Pensavo che gli affanni dei due mesi trascorsi
m’avrebbero concesso un po’ di quiete. Sbagliavo.
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Il giorno della vigilia di Natale, poco dopo le sette,
l’autocorriera in servizio sulla linea Favara - Palermo
a qualche chilometro dal luogo di partenza,
in aperta campagna, fu bloccata da alcuni banditi
armati e i viaggiatori, una quarantina circa, fatti
scendere e rapinati.
Ne ebbi notizia circa mezz’ora dopo dal maresciallo
di Aragona mentre mi accingevo ad andare
in ufficio. Mia moglie capì che era accaduto qualcosa
e commentò: «Neanche a Natale stanno quieti»;
Dall’alloggio per telefono informai il comando
di Palermo per l’identificazione dei prigionieri.
Subito dopo, con alcuni sottufficiali, partii per
un sopralluogo. Sul posto, uniche tracce del delitto
furono alcuni pezzi di carta e un fazzoletto che, pulito
e ripiegato com’era, lasciava supporre fosse scivolato
dalla tasca di una delle vittime.
Identificati i viaggiatori e invitati in caserma,
si presentarono dopo Natale, alla spicciolata, e fu
giocoforza chiamare un buon numero di essi con
regolare diffida, per cui le indagini preliminari si
protrassero per un lasso di tempo oltre ogni buon
proposito.
I risultati furono deludenti, frutto di un alterato
modo di pensare, vuoi per il costume ambientale,
vuoi per lo strano degrado della coscienza
civica individuale. Ne avevo avuto lampante
esempio in seguito all’uccisione di un campiere. Il
proprietario del fondo, un barone, alle mie pres-
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santi richieste di informazioni, a certo punto, seccato,
se ne uscì con questo concetto: «Le indagini
sui delitti riguardano i carabinieri, la polizia; che
c’entriamo noi, gente dabbene?».
Così le prime ricerche non approdarono a
niente. Ci si accorse soltanto, attraverso il conteggio
delle matrici dei biglietti venduti, che all’appello
mancava un passeggero, peraltro ignoto.
Il maresciallo Sedita fu incaricato di portarsi
a Favara e con l’ausilio di quel comandante della
stazione tentare di identificarlo.
Nel frattempo, malgrado le sollecitazioni superiori,
nessun fermo di persone sospette era stato
operato mancando assolutamente ogni indizio.
C’era da temere inoltre che tra gli eventuali fermati
potesse incappare uno dei rapinatori il quale, per
mancanza di riscontri, non solo l’avrebbe fatta
franca, ma con l’astuzia tutta propria dei delinquenti
fantasiosi, come sono quelli della provincia
di Agrigento, avrebbe potuto depistare le indagini,
con la conclusione che tutta l’operazione si sarebbe
potuta definitivamente compromettere.
Il maresciallo Sedita, in compagnia del parigrado
Cipolla comandante della stazione di Favara,
rientrò qualche giorno dopo. Erano ilari:
«Cose grosse, grosse assai. Lo sa, signor maggiore,
chi c’era sull’autocorriera? Roba da non crederci.
Tremendone in persona».
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«Il capo mafia?».
«Per l’appunto, proprio lui, quel cappello a cilindro,
quella grossa coppola storta. Guardi qui,
abbiamo portato copia di quanto è scritto sul registro
dei pregiudicati: renitenza alla leva, disertore,
furto militare, rissa, tre omicidi con assoluzione per
insufficienza di prove e amnistie a strafottere».
«Pensate abbia diretto le rapine?».
«È da escludere senz’altro» intervenne il maresciallo
Cipolla.
«Quando un capo mafia del calibro di Tremendone
» aggiunse Sedita «si trova immischiato
in un fatto del genere, i responsabili se la vedranno
brutta ché è come se avessero commesso uno
sgarbo, un vero affronto. Può finire peggio che andare
in galera. Lei mi capisce».
«Bene, lo interroghiamo e più presto si fa,
meglio è».
«Non a Colapreti, però. Lì non gli caveremo
di bocca neppure una parola. Qui dev’essere
interrogato».
Il maresciallo Sedita compilò la lettera di ingiunzione
a presentarsi in caserma per ragioni di
giustizia. Il maresciallo Cipolla s’incaricò di farla
recapitare a mano.
Il mattino successivo, verso le dieci, intanto a
sbrigare le solite pratiche burocratiche, udii il grido
«Attenti!» provenire dall’androne. Balzai in piedi,
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infilai il berretto e guanti e mi avviai per le scale. Il
generale comandante della brigata saliva col solito
passo svelto.
In ufficio mi chiese a che punto fossero le indagini
sulle rapine ai passeggeri dell’autocorriera.
Risposi che da un momento all’altro attendevo l’arrivo
d’un capo mafia, testimone oculare e forse vittima
egli stesso, dal cui incontro mi ripromettevo
di giungere a risultati confortanti.
Il generale ascoltò con attenzione e mi assicurò
che avrebbe fornito i mezzi necessari a rinforzare
i servizi preventivi con l’invio di numerosi carabinieri
motociclisti: «Quello che non capisco
bene è uno strano discorso del ministro Mancuso.
Ha cominciato con l’elogiare, forse eccessivamente,
la tua azione prudente e le caute modalità con le
quali conduci le indagini di polizia giudiziaria: un
lungo sproloquio che m’insospettiva. Infatti, a un
certo punto dice che non riesce a capire il motivo
per cui hai convocato in caserma un tale, a suo dire,
neppure lontanamente sfiorabile da qualsiasi sospetto.
Ha concluso che l’insospettabile, se ricordo
bene, certo Tremendone, avrebbe ricevuto un tuo
invito a presentarsi in caserma e sarebbe caduto in
tale stato di agitazione da cadere vittima di una
crisi cardiaca».
«Mi scusi, signor generale, ma è proprio asfissiante.
Quando si sta per toccare un mafioso della
risma di Tremendone, apriti cielo. La storia del cuore
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debole è una vera fandonia. In effetti si tratta di mafioso
assai temibile, reso ancor più prepotente dalla
protezione del ministro. Lo debbo ascoltare perché
è l’unico testimone della rapina che può mettermi
sulle tracce dei delinquenti».
«Si, si, capisco. Sospettavo qualcosa del genere
e perciò ho voluto dirti del discorso che mi ha
fatto. Tu agisci come meglio ritieni e fai conto che
non ti abbia detto niente».
Nell’allontanarsi mi batté la mano sulla
spalla, sorridendo: «Con quella faccia da santamessa
che si ritrova mi ha incaricato di un messaggio
personale: Dica al maggiore che vada adagio
alle voltate».
«Ha proprio il debole per le metafore. E non è
neppure farina del suo sacco. Se non sbaglio, è una
battuta nella parodia del libro di Cavallotti, Luna
di Miele.
Lo spargitore di terrori notturni si presentò in
caserma il mattino dopo la visita del generale e
debbo confessare che, dopo averlo atteso quasi con
impasienza, vedermelo davanti mi procurò gioia,
ma nello stesso tempo fui assalito da molti dubbi:
con che propositi si era presentato? Come avrebbe
reagito alle mie domande? Sarebbe rimasto muto?
Avrebbe cercato di menarmi per il naso? Sarei riuscito
a rompere il famoso muro dell’omertà?
Lo feci sedere.
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“Come mai, lei che era sull’autocorriera, ed è
stato quindi vittima di un grave reato, non è venuto
spontaneamente a deporre?”.
Si attendeva la domanda, ma ebbe come un
moto di sorpresa perché sembrò turbato, forse a
causa mia. Era abituato a parlare con i comandamenti
di stazione, non con gli ufficiali e per giunta
del mio grado. Dopo breve esitazione, si riprese:
“Mi vedo, son qua” e italianizzando il suo dialetto:
“parlasse” lento, con viso accigliato.
“È lei che deve parlare”.
Non rispose, limitandosi a guardarmi con gli
occhi spalancati ma – pensai – spiritualmente in catalessi.
Anche i sottufficiali tacevano e il silenzio
s’era fatto grave.
Il maresciallo Sedita lo interruppe:
“Signor maggiore, questo s’addorme”.
Il gran delinquente allora parlò con tono lento
e basso, pronunziando le parole a labbra serrate,
con un appena accennato lampo degli occhi, tra l’ironico
e lo sprezzante: “Che vuole, mi sono trovato
in mezzo” disse.
“Senti, senti… Ci racconti con ordine come andarono
le cose. Ci descriva ogni particolare dei
fatti, da quando iniziarono a quando finirono. Lei
non manca di esperienza e sa quanto può essere
utile anche ciò che apparentemente può sembrare
trascurabile dettaglio”.
“Posso dire poco; l’autobus improvvisamente
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si fermò e sentii qualche strillo di donna per lo
scossone, e voci che gridavano: “Scendere, scendere!”.
Chi poteva essere?
Forse anche poliziotti o carabinieri. Chi poteva
saperlo?
Mi alzai come tutti gli altri e intanto vidi tre o
quattro picciotti, giovani, senza barba, che si facevano
consegnare portafogli, orologi, anelli, catene
di quelle che portano al collo le donne, insomma
tutto quanto c’era da arraffare. Alla fine risalimmo
sul mezzo e ci avvicinammo a Palermo”.
“E lei così ha bello e concluso. Ma, dica un po’,
ci prende per stupidi? Cominci a precisare: a lei che
cosa hanno rubato?”.
“A me? Proprio niente”.
“Non portava valori? Che so, portafogli, orologio?”.
“Sì, l’avevo, ma il bandito che mi venne davanti
mi guardò e passò oltre. Che ne so io… E
non sono così fesso da dargli spontaneamente la
roba”.
“Allora lei è stato riconosciuto come uomo di
rispetto, diciamo così. E, da parte sua, ha avuto
modo di riconoscere quello che lei chiama bandito?”.
“Gente di strada, scassapagliari, ci diciamo noi”.
“Erano armati? Che arma portavano?”.
“Sì, mi pare pistole e forse uno aveva un mitra
o una cosa simile. Adesso che ci penso, portava
pure essere un bastone”.
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Il maresciallo Cipolla, che gli era a fianco, gli
diede un colpetto nel gomito confidenzialmente:
“Tremendone, dica al signor maggiore quello
che sa. Avanti, parli”.
“E che faccio? Invento? O do la cabala?” rispose
il mafioso con tono risentito.
Capii che bisognava cambiare registro:
“Lei è in possesso di porto d’arma, di pistola;
e non capisco, con i suoi precedenti, come abbia
fatto per ottenerlo. Vuole favorirmelo?”.
Senza pronunciare verbo, Tremendone mi lanciò
un’occhiata fulminante. Cavò di tasca il documento
e me lo porse. Lo esaminai con cura, non
solo mettendoci più tempo del necessario, ma
guardandolo in controluce, quasi avessi l’impressione
di trovarmi tra le mani un falso:
Considerati i suoi precedenti, mi piacerebbe
sapere chi si è messo di mezzo. Forse il ministro
Mancuso, al quale sta tanto a cuore la sua salute,
oppure l’altro suo illustre protettore, l’onorevole
Calza?”.
Non mi lasciò continuare. Si alzò e, protendendosi
verso di me con cipiglio minaccioso, gridava:
“Sbagli di gioventù. Tutti ne hanno fatti. Piccoli
sbagli, e per tutta la vita si è presi di mira”.
Sedita, che gli era accanto, lo prese per le
spalle e lo costrinse a rimettersi seduto:
“Stai fermo, ché nessuno di fa solletico”.
“Non si permetta più di alzare la voce qui
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dentro” dissi gelido: “La faccio prendere e legare
come un salame e la faccio esporre, così legato, sul
balcone perché la gente veda e rida di lei e della
sua potenza di mafioso di cartapesta. Quanto a me,
può darsi che mi puniscano e, meglio ancora, mi
trasferiscano: sarò più vicino al continente. Però mi
prendo la più bella soddisfazione della mia vita di
carabiniere”.
Mai avrei posto in atto tale minaccia e mi pentii
subito d’averla espressa, ma ormai era fatta e
tanto valeva continuare il gioco.
Tremendone mi guardava smarrito, per un
momento dovette credere avessi perso la ragione
e così mettessi in atto la minaccia.
Mi mostrai più calmo:
“Dati i suoi precedenti penali, le ritirerò il
porto d’arma e non ci sarà barba di onorevole o
di ministro che mi farà deflettere. E non è detto
che non riesca a incastrarla in modo che finisca
nella gabbia degli imputati per concorso in rapina,
ché per me, se non parla, vuol dire che ha
fatto da basista”.
Tremendone s’era ripreso; fece un gesto con la
mano, come se volesse scacciare una mosca dalla
faccia. Intende dire che la minaccia di denuncia lo
lasciava indifferente, oppure era solo un piccolo fastidio
in più.
Il gesto non mi piacque e, risentito, replicai:
“Voglio vedere se i giudici crederanno più a
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me che a lei”. Alzando il tono: “In ogni caso, se lo
tolga dalla mente, il porto d’armi non lo riavrà.
Anzi, maresciallo Sedita, prenda la pistola, rilevi i
dati e la faccia custodire”.
Il maresciallo Cipolla andò alle spalle di Tremendone,
prese a farmi cenno passandosi una
mano a taglio sul braccio; voleva significare che il
mafioso, piuttosto che essere privato del porto
d’arma, si sarebbe fatto tagliare un braccio.
Tremendone, dopo le mie reiterate minacce,
mi fissava con odio ma non muoveva muscolo.
D’un tratto, uscì dal torpore in cui ogni tanto lasciava
intendere di cadere:
“Questa storia della complicità, del basista, e
di tutto l’altro che lei dice, è soltanto fantasia. Nessun
tribunale, alla prova dei fatti, ci crederà. Piuttosto
veda di ridarmi il porto d’arma”.
“Neanche per sogno. Salvo che lei si decida
una buona volta a dire ciò che sa”.
Emise una specie di grugnito, sottovoce,
rauco, facendo uscire le parole tra muso e denti:
“Ero sceso dalla corriera e stavo fermo come
tutti gli altri. E che potevo fare? Aspettavo che uno
dei picciotti venisse a rapinarmi. Uno si avvicinò
e allungò una mano, invitandomi a dargli la roba.
Non mi mossi, come se non avessi inteso, e quello
dovette avere un ripensamento; passò avanti
senza prendermi niente. Ecco perché non mi ero
preoccupato di presentarmi”.
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“Lei ha riconosciuto quel bandito? Ne ha colto
qualche segno particolare che ci metta sulla buona
pista?”.
“Sì e no, giudichi lei. Dalle mani, soltanto dalle
mani, ché la faccia era troppo scura per poterla riconoscere,
come le dicevo, soltanto dalle mani, m’è
parso potesse appartenere alla famiglia Mangiapane.
Adesso è affare suo. Affare dei carabinieri”.
“Dalle mani?… Che mi va imbrogliando?”.
Tremendone mi lanciò uno sguardo truce. Gli
occhi quasi gli uscivano dalle orbite:
“Se glielo dico io, vuol dire che si tratta di notizia
giusta”.
Intervenne il maresciallo Cipolla:
“Signor maggiore, Tremendone ha detto bene.
Deve credergli. Lo conosco il giovane Mangiapane:
lasci fare a noi; li mettiamo tutti dentro, stanotte
stessa, e vedrà che recupereremo pure la refurtiva
e le armi che hanno usato”.
Come avvenne.
Non posso concludere questa memoria senza
sottolineare che le espressioni usate dal mafioso,
con quelle ammissioni appena accennate e imprecise,
risentivano di una mai abbandonata prudenza
che fa sì – pur quando si sa con certezza,
come nel caso – da far mostra di intuire soltanto.
L’ultima affermazione di Tremendone, così
perentoria, non è in contrasto col dire precedente:
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è nient’altro che impulsiva manifestazione dell’orgoglioso
‘io’ di ogni affiliato alla mafia.
Era già passato quasi un anno ed ecco che capita
in caserma, zoppicando e con aria smarrita,
Calogero Sorge.
Lo feci accomodare e, francamente, pensai
fosse venuto a darmi qualche lume sui suoi sequestratori.
“Portateci due caffè” chiesi al carabiniere
piantone.
Sorge voleva rifiutare, ma finì col sorbirlo
schizzandone buona parte sul suo vestito e su alcune
carte che erano sul tavolo.
Lo guardavo in silenzio, non volendomi
compromettere con una domanda sbagliata; attendevo
da lui la prima mossa.
Finalmente parlò, lentamente, strisciando le
parole:
“Lei è un’autorità e forse potrebbe aiutarmi
a comprare un pezzo di terra, mettiamo in Toscano
o in un altro luogo lontano da Palma. Non
voglio più stare in Sicilia”.
“Vuol andar via da solo, o con la famiglia?”.
“Con la famiglia. Mi basta un pezzetto di
terra e una casetta”.
“Sorge, si rende conto che mi sta dicendo
che vive sotto l’incubo d’un altro sequestro e
d’una fucilata?”.
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“No, no. È che voglio cambiare aria. Gliel’ho
detto: non mi piace più vivere a Palma di Montechiaro”.
Pensai che l’occasione era buona per tentare
di cavargli qualche notizia che mi mettesse sulle
piste dei malviventi:
“Vede, non posso prometterle niente di sicuro:
son sol in grado di poter interessare il prefetto e
qualche mio collega del continente per la ricerca di
terreni in vendita, che abbiano un fabbricato adatto
a ospitare una famiglia e qualche bestia, il tutto a
prezzo che vada bene per lei. Certo, se la cosa va
in porto, lei vivrebbe senza più incubi e allora potrebbe
fornirmi qualche appiglio, anche un piccolo
elemento, sul quale tessere la mia rete per mandare
in galera i suoi sequestratori”.
Sorge mi guardò con aria incredula, come sorpreso
dalle mie parole:
“Bacio le mani”, e se ne andò.
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PArtE tErZA
Dopo circa un anno di permanenza ad Agrigento,
pressato da continui incitamenti a tentare di
porre argine al dilagare della criminalità mafiosa,
cercavo – per quanto m’era possibile – di identificare
i nessi tra manovalanza del crimine, capi e cosche
e quali potessero essere le strutture che riuscivano
a mantenere viva e operante l’organizzazione,
malgrado le lotte continue, e con apparente successo,
condotte dallo Stato.
Ero agevolato in tale ricerca dall’osservazione
diretta dell’indole perversa dei responsabili dei delitti
sui quali indagavo con una certa fortuna.
Un giorno, casualmente, negli uffici dell’Archivio
di Stato, mi venne tra le mani un faldone datato
1874. Incuriosito, presi a sfogliarlo; con meraviglia
vidi che conteneva una lettera dell’allora ministro
dell’Interno, Girolamo Cantelli, inviata al
prefetto di Agrigento:
“Dalle diverse autorità, le cui attribuzioni
hanno qualche attinenza colla sicurezza pubblica,
e da coloro tutti che convergono la loro attenzione
ed i loro studi sulle cause del malessere della po-
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polazione sicula, si è detto e ripetuto, e continua ad
affermarsi, essere la mafia la precipua ragione dello
stato anormale in cui queste si mantengono ed il
maggiore ostacolo a qualsiasi tentativo di miglioramento.
Dovunque, e nel delitto che si consuma e nella
mancanza di prove, e nella reticenza dei testimoni
e nella stessa reticenza delle parti lese, come nella
insufficienza della pubblica sicurezza, nello sviare
ed eludere la Giustizia, e nel carpire mostruosi verdetti
di incolpabilità, si addita la mano e l’opera inevitabile
e progressiva della mafia, che tutto paralizza,
a tutto e a tutti più s’impone.
Non è guari che un illustre magistrato dell’Isola
in una pubblica dissertazione, fatta in argomento
di pubblica sicurezza e di giustizia, non solo
constatava questa deplorevole prepotenza mafiosa,
ma giungeva financo a riconoscerla talmente estesa
e radicata e deleteria da disperare quasi della possibilità
e dell’efficacia dei rimedi.
Maggiore quindi incombe l’obbligo del Governo
ed ai suoi rappresentanti di arrivare ai modi
ed ai mezzi per ripagare ad uno stato di cose tanto
sconfortante.
Ma per ciò fare e per porsi in grado di contrapporre
alle estensioni ed alla intensità del male
provvedimenti atti a vincerlo, occorre averlo ben
definito, e conoscere quali proporzioni veramente
abbia e dove più attecchita e sviluppi.
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La S.V., cui non saranno mancate occasioni per
formarsi un largo corredo di informazioni e di notizie
in proposito, vorrà significarmi con dettagliata
relazione:
1) in quali modi e forme di consueto si svolga,
e quali ne siano le norme regolatrici, se varie e
determinate;
2) se in tutte, e in quali classi della popolazione
principalmente si estendono le ramificazioni della
mafia, e quali vincoli corrono fra coloro che ne fanno
parte;
3) quali ne siano i principali centri e i più notori
caporioni ed aderenti ed in mancanza di un’apposita
e ben distinta organizzazione, quali siano i
più elevati e temuti mafiosi della provincia e quelli
principalmente che per la loro posizione, il loro
grado e la loro relazione, sono a ritenersi estremamente
nocivi alla pubblica sicurezza, ed il massimo
ostacolo a combattere e vincere questa piaga sociale.
L’importanza dell’argomento ed il tenore
stesso dei quesiti che io le propongo, bastano a denotare
con quanto impegno e precisione io desideri
vederli svolti e risoluti; ed è quindi superfluo che
io le rivolga vive raccomandazioni perché le informazioni,
che in proposito ella mi rimetterà, e specialmente
le indicazioni dei richiesti particolari,
siano chiare e complete e tali, insomma, da rappresentare
all’evidenza e con scrupolosa esattezza la
mafia in tutte le sue estrinsecazioni”.
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Seguivano, inviate dagli uffici periferici di pubblica
sicurezza della provincia, le relazioni dei funzionari
chiamati a redigerle, nelle quali erano elencati
orribili delitti, con parole colme di sdegno per la
dichiarata impotenza a tradurre davanti alla Giustizia
gli autori, a causa del generale senso dell’omertà.
Ad ogni relazione era allegato poi un elenco di
cinque o sei nomi di persone indiziate di appartenenza
alla mafia.
Tutti erano concordi nel definire mafia la prepotente
applicazione del diritto del più forte: una
continua soverchieria a danno dei deboli e delle
persone dabbene.
Mi decisi allora a scriverne, e buttai giù circa
150 cartelle: non mi restava che cercare l’editore disposto
a pubblicarle.
Un buon amico, il poeta Antonino Cremona,
mi suggerì di rivolgermi a Leonardo Sciascia anche
per avere un autorevole parere su quanto avevo
scritto.
Attraverso il comandante della stazione di Racalmuto,
riuscii a fissare un appuntamento con lo
scrittore, al suo rientro da un viaggio in Spagna.
Durante l’attesa ero turbato all’idea che egli –
a parte l’opinabile aiuto a ricercare l’editore – potesse
esprimere giudizio negativo sul lavoro.
E con stato d’animo da studente sotto esami,
mi presentai a lui, che non solo trovai cordialissimo,
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ma immediatamente disposto a esaminare il manoscritto.
Al termine della chiacchierata volle condurmi
in un bar e offrirmi un caffè.
Trascorsi un paio di giorni, sempre un po’ in
ansia per il parere che ne avrebbe espresso, venne
a trovarmi ad Agrigento, dicendomi che il lavoro
andava bene e suggerendomi di spostare alcuni
brani per una migliore organicità del tutto.
Insieme ci recammo dal suo omonimo, l’editore
Salvatore Sciascia di Caltanissetta, e nel novembre
1956 il saggio fu pubblicato, suscitando –
specie in Sicilia – notevole rumore.
Chi più prese cappello per la pubblicazione fu
l’arciprete vescovo di Palermo, cardinale Ruffini:
non gli entrava in testa che un ufficiale dei carabinieri
– secondo il suo modo di ragionare, osservatore
della realtà e tenuto al silenzio (chissà poi perché)
– fosse sceso tanto in basso da scrivere un libro
che, trattando mafia, gettava fango sulla Sicilia.
Non voglio dire, come Leonardo Sciascia, che
a cardinali, vescovi e preti la mafia facesse comodo
e come taluni ci stessero bene dentro, tuttavia credo
di dovere ricordare che il sullodato presule, al
tempo della famosa crociata contro il partito comunista,
chiese al governo, e precisamente al ministro
dell’Interno, onorevole Mario Scelba, che il
Pci fosse messo fuori legge.
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Sua eminenza, ad un anno di distanza dalla
pubblicazione del libro, ebbe modo di manifestarmi
pubblicamente il suo dispetto.
Per rendere onore a monsignor Peruzzo, che
celebrava il trentesimo anniversario della presa di
possesso della diocesi, il cardinal Ruffini giunse in
forma ufficiale ad Agrigento.
Allo scalo ferroviario, per salutarlo e rendergli
omaggio, secondo il protocollo, si schierarono le autorità
della provincia. Mi trovavo tra il questore e
l’intendente di finanza. Il cardinale passò tutto sorridente
e benedicendo dal questore, che era alla mia
destra, all’intendente, ch’era a sinistra, come tra i
due ci fosse il vuoto.
Anche da parte dei superiori si manifestò un
certo disappunto, e le mie pagine attraversarono
tutta la scala gerarchica dell’Arma. I libro non
conteneva segreti istruttori né scoperti accenni
alle trame dei politicanti, per cui mi fu dato atto
che lo scritto era “controllato”. Si esprimeva, tuttavia,
“l’augurio che l’attività letteraria non mi distraesse
dagli impegni di servizio”.
Continuai a reggere il comando dei carabinieri
della provincia e, nel frattempo, presi a frequentare
Leonardo Sciascia e tra noi sorse quell’amicizia fraterna
che ancora oggi ci lega. Mi recavo nella sua
casa di campagna ed egli veniva a trovarmi ad
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Agrigento e ogni incontro con l’amico era piacevole
fonte di nuove esperienze.
Mafia, mi disse un pomeriggio, “a parte la delinquenza,
è anche mentalità, specie negli uomini
politici”.
E mi raccontò di un deputato comunista che,
subito dopo l’approvazione della legge Gullo sulla
mezzadria, corse a comunicare la bella notizia al
proprio mezzadro. E quest’ultimo, tutto contento:
“Allora dobbiamo fare i conti secondo la
nuova legge”
Al che, il deputato, cambiando registro:
“E che, anche contro di me ti metti?”.
Nel novembre 1957 lasciai la Sicilia, destinato
a Torino; ma negli anni successivi ebbi modo di ritornarci
un paio di volte. Non avendo responsabilità
di servizio, potei più agevolmente interessarmi
al problema mafia che, nel frattempo, andava evolvendosi
nelle sue attività criminose e nei suoi intrighi
politici.
I vecchi mafiosi si davano anima e corpo all’attività
di mezzani del potere; grandi elettori di
questo e di quello, erano – e sono – bene accetti agli
uomini politici, potendo controllare decine di migliaia
di voti.
Nelle competizioni elettorali, il sistema del
clientelismo, da locale, è andato espandendosi
fino a coinvolgere livelli nazionali; con nuovi
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grandi protettori che rendono più potente l’organizzazione
mafiosa, permettendo ai mestatori lucrosi
profitti non soltanto dai produttori di ricchezza
ma pure da chi ambisce a piccoli favori e
raccomandazioni.
Grazie alla mafia sono stati portati alla ribalta
politica uomini notoriamente chiacchierati
e disonesti.
Quando la riffa elettorale diventa un busillis e
la capacità dei mezzani tende ad essere bloccata, si
giunge al delitto politico, altrimenti inesplicabile.
Ma che cosa è cambiato? Fino a qualche anno
addietro la mafia era agli ordini di indiscussi capi
siciliani. Ora non più. E non è mera congettura questa,
ché senza ingrovigliarmi in un esame di proporzioni
eccessive, tenterò di dimostrare l’evoluzione
avvenuta, per l’egemonia dei potenti capi di
Cosa Nostra, e per l’incalzare di una giovane classe
di delinquenti che esprime la propria temerarietà
senza esitazione alcuna, sopprimendo in piena
piazza i vecchi e influenti pontefici.
Non ci sono oggi capi mafia del tipo di Calogero
Vizzini, uomo astuto e prudente, la cui parola
era comando indiscusso in Sicilia quanto in
America.
Il suo successore, Giuseppe Genco Russo, da
Mussomeli, fu pontefice massimo, cioè primus inter
pares, fino al 1957, quando sorse una incrinatura: vi
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fu convegno di capi di Cosa Nostra e di mafiosi di
Castellammare del Golfo all’albergo delle Palme di
Palermo.
In tale occasione, Genco Russo giunse al luogo
dell’incontro scortato da dodici uomini, che rimasero
ad attenderlo all’esterno. Tale drappello è indicativo
di una certa ruggine tra il capo dei capi siciliani
e le potenti mafie d’America e di Castellammare,
ma più ancora è sintomo dell’inizio di uno
scontro tra due mentalità: quella, diciamo così; conservatrice
del contadino mafioso e quella arrogante
e spregiudicata della delinquenza organizzata d’oltreoceano
e della nuova mafia isolana. Da qui, la
preoccupazione, e le conseguenti misure cautelative,
di Genco Russo a salvaguardia della propria
incolumità fisica.
Anche Genco Russo passò, e la fiaccola andò a
Gaetano quale rappresentante di Cosa Nostra in Sicilia,
con posizione di governo – quindi – completamente
invertita.
Tale sia pure limitata influenza sulle varie attività
mafiose (la speculazione sulle aree edificabili,
sulle tangenti e sugli introiti della fabbricazione e
commercio degli stupefacenti, tanto per citarne alcune)
pare sia rimasta incontrastata fino al 1975-
1976 quando taluni pregiudicati, agli ordini di Luciano
Liggio o del Papa, fecero fuori ad uno ad uno
i luogotenenti del Badalamenti, il quale per avere
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salva la vita fu costretto a rifugiarsi in America e
porsi sotto la protezione di Cosa Nostra.
La mafia emergente, tanto per intenderci
quella dei Greco, Liggio, Santapaola e tanti altri, in
buona parte estranea all’intrallazzo politico, dal
controllo e sfruttamento delle attività agricole è
passata a nuovi molteplici sistemi, ben più cinici.
È una mafia che combatte senza esclusione di
colpi, cinica, feroce. Uccide in pieno giorno e al cospetto
della gente, inchiodata a guardare, paralizzata
dal terrore.
Si suddivide in numeri aggregati con faide
guerreggiate tra loro, per conseguire sempre nuovi
equilibri al fine di raggiungere il predominio.
Penso che il sistema mafioso nelle sue gerarchiche,
nei suoi diversi modi di essere e di agire non
sia immutabile: sa adeguarsi ai tempi e all’ambiente
con rapidità sorprendente.
Di contro che fa lo Stato? Ad ogni uccisione
eccellente si manifestano le rituali spinte emotive,
s’invocano e si promettono rimedi più efficaci, e
si corre alla nomina dei membri di una ennesima
commissione antimafia con poteri più ampi delle
precedenti. Si aggiungono direttive politiche
nuove che, nella sostanza, passato il clamore, restano
disattese.
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NotE DEll’AutorE
Mi sono limitato a scrivere di crimini sui
quali ho diretto personalmente le indagini. Li ho
ricostruiti nella loro gravità e nel modo inconsueto
con cui furono commessi, senza rappezzature
come a distanza di oltre trent’anni mi sembra
di averli vissuti.
Ho dedicato un frammento in un solo posto
esperienze avvenute in diversi luoghi, ché, col
tempo, fatti e personaggi si sono come appiattiti su
un unico scenario.
Sono stato costretto a cambiare o ad omettere
taluni nomi di persone e di luoghi in quanto qualche
personaggio ricorda le figure di diversi uomini
politici allora inclini, per soli motivi elettorali, a patteggiare
con la mafia, però mi piace pensare che
qualcuno, ove gli capitasse di leggere questo scritto,
possa chiedersi: ‘Mi riconosceranno?’.

 

 

Il barone della musica.

Arrivato allo scoccare dei settant' anni, il barone Francesco Agnello afferra insieme, nello sguardo retrospettivo sulla sua vita, i vecchi mafiosotti di campagna e i personaggi straordinari di cui può vantare l' amicizia: da Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Bebuzzo Sgadari di Lo Monaco a Karlheinz Stockhausen, Luigi Nono, Luciano Berio e Maurizio Pollini. A volte aristocraticamente distante e malinconico, a volte ironico e allegro, autore di sorprendenti boutades reazionarie e al tempo stesso fruitore moderno e tecnologico di cellulari computer portatili agende elettroniche ultimo modello, il barone Agnello è un personaggio complesso, paradossale, contraddittorio: insomma profondamente siciliano.
Dice di sé, oggi: «Ho sempre sognato le cose che sapevo di non poter realizzare. La mia attività è stata un fallimento, ma io non mi sento un fallito. Un idealista, semmai, dell' idealismo tipico di chi non ha mai dovuto lavorare per vivere. Come appartenente a una cultura antica credevo di poter stabilire una specie di ponte tra il meglio del passato e il meglio dell' oggi. Ma ora predominano i valori della peggiore piccola borghesia, distante da quelli della vecchia classe dirigente aristocratica, e anche da quelli dei miei artigiani e dei miei mezzadri. Io, proprietario terriero, ho conosciuto contadini dotati di una sensibilità umana che nessuno potrebbe sospettare, conoscendo i loro discendenti». Gattopardesco nelle parole, forse, ma non nell' aspetto, Francesco Agnello, barone di Siculiana, quasi sorvola sul rapimento di cui fu vittima, nel 1955, nel pieno degli ultimi fuochi del banditismo: «Il penultimo sequestro operato in Sicilia: dell' ultimo è stato protagonista mio cugino Enrico Planeta. Già mio nonno materno aveva passato un periodo di prigionia a opera della banda Giuliano. Mi tennero nella fenditura di un monte sul Platani, tra Cianciana e Cattolica Eraclea. A organizzare il tutto era stato un contadino delle nostre terre. Niente riscatto: mi liberarono polizia e carabinieri. A turno, in seguito, i miei carcerieri mi hanno chiesto perdono. L' ho concesso a tutti». Poche parole anche sulla sua attività di organizzatore musicale: è storia nota agli addetti ai lavori. Nel suo ufficio presso l' associazione Amici della musica a piazza Marina, fondata nel '25 da Vito Trasselli Varvaro e della quale è presidente dal '74, il barone siede su una seggiola che pare contenere a malapena disillusione e abbondanza. Corpulento, la barba bianca e la pelle diafana, l' occhio assonnato e reso vigile soltanto dall' indizio di un caffè che sta per arrivare, se ne sta immerso nella flemma di chi dedicherebbe il dopo pranzo a una siesta, e ripete a fil di labbra l' inizio di una frase - una, due volte - quasi a voler saggiare il peso delle proprie dichiarazioni. Eppure nelle frasi traspare uno sguardo molto soggettivo su quella Palermo vissuta da una fetta di società che «cadeva a pezzi: la realtà di un proprietario terriero che, come me, non aveva alcun interesse intellettuale per i propri possedimenti. Capii che quel mio mondo sarebbe scomparso. Appartenevo a una generazione i cui genitori ritenevano che non fosse elegante conoscere il saldo dei propri conti in banca. Come altri possidenti, subii un esproprio notevole. Operare per la cultura nella mia città era un modo per sognare. Immaginavo Palermo e l' isola come disposte alla redenzione. Ora mi rendo conto del più completo e inevitabile insuccesso dell' azione. Mia e dei miei amici». Palermo irredimibile, dunque: una città dalla quale, sottolinea Agnello, «non mi sono mai sentito amato, anche se non mi pento di quello che ho fatto. E, di contro, amo Palermo come si fa con qualcuno che sei costretto ad amare». Già presidente dell' Orchestra sinfonica siciliana e oggi a capo del Cidim (comitato nazionale italiano musica del Cim/Unesco), oggi il barone spreme così il succo della propria esperienza professionale ed esistenziale in Sicilia. Ma, ecco la sua complessità spiazzante, il sapore aspro di quel succo non gli impedisce di avventurarsi in progetti impegnativi: oltre all' attività del Cidim, anche un programma che prevede la sponsorizzazione di giovani esecutori in Albania e in Argentina. Per il resto, i lunghi soggiorni a Roma, sul Palatino, dove abita per lo più; e la famiglia: la moglie («sono sposato da 31 anni a una donna egiziana bella, dolce e paziente»), le figlie Alessandra e Stefania. La primogenita studia all' estero, la seconda lavora presso un' agenzia teatrale. «Cos' è che non va? Dieci anni trascorsi alla presidenza dell' Eaoss, ora ridotta a un' ombra caricaturale di se stessa. Ero riuscito a portare la Sicilia ai più alti livelli italiani di presenza di pubblico. E dire che quando ho cominciato ero come un principiante di violino che inizia a studiare partendo dai Capricci di Paganini anziché dalle corde vuote e dai primi colpi d' arco. Era il '58, alcuni amici mi chiesero di collaborare al progetto "Settimane internazionali nuova musica". Oggi guardo ai miei 43 anni di carriera. Ma basta considerare la distruzione che ha subito questa città per capire come vanno le cose, qui. Decine di ettari, di costruzioni, di atmosfere meravigliose delle quali non è rimasto nulla, tranne qualche quadro di Lojacono. Tra i colpevoli, io stesso. Non ho fatto granché perché lo scempio non accadesse. Arrivava qualche contributo regionale agli Amici della musica e ci dicevamo: "Bene, tiriamo avanti"». Il caffè si è quasi raffreddato. Cerchiamo di introdurre argomenti più leggeri. «Se ho hobby? No, non ho tempo. Vado al cinema, ma raramente. James Ivory e Kubrick, a dover fare due nomi. Amo cucinare, o dovrei dire amavo. Da quando non ho più avuto il cuoco mi son dovuto arrangiare. Oggetti cari a casa? Tanti. Soprattutto i ricordi dei miei genitori». Spontaneo tornare al passato. In particolare a quel cambiamento del ' 46: «L' esproprio trasformò la mafia delle campagne in mafia delle città. Imprenditoriale e feroce, quest' ultima, rispetto a una Cosa nostra che, pur essendo altrettanto feroce, aveva dei principi che la rendevano meno abietta. E mi riferisco a una funzione sociale: i vecchi uomini d' onore non puntavano all' arricchimento personale, costituivano la classe di mediazione tra contadini e grandi proprietari terrieri. I proprietari rinunciavano, su loro intercessione, a parte delle proprie entrate per dare un minimo di sostentamento ai contadini stessi». Parole che destano qualche interrogativo, se si pensa che escono dalle labbra di un uomo cui un artista all' avanguardia come Stockhausen ha dedicato, oltre alla propria amicizia, una delle sue maggiori composizioni: "Punkte". Ma il tempo rimasto è davvero poco, per approfondire. L' ultima goccia di caffè è stata sorbita.

Repubblica — 17 febbraio 2002   pagina 1   sezione: PALERMO