Gabriella Ebano, Felicia e le sue sorelle. Dal secondo dopoguerra alle stragi del ’92-93. Venti storie di donne contro la mafia. Ediesse, Roma 2005. Recensione a cura di Eugenio Giannone  

Recentemente ho avuto la fortuna di leggere due libri meravigliosi: uno edito dalla Palumbo di Palermo per conto della Fondazione Progetto legalità e intitolato La memoria ritrovata. Storie delle vittime della mafia raccontate dalle scuole e l’altro, questo, di Gabriella Ebano, Felicia e le sue sorelle, per i tipi della Ediesse editrice di Roma.

Recentemente ho avuto la fortuna di leggere due libri meravigliosi: uno edito dalla Palumbo di Palermo per conto della Fondazione Progetto legalità e intitolato La memoria ritrovata. Storie delle vittime della mafia raccontate dalle scuole e l’altro, questo, di Gabriella Ebano, Felicia e le sue sorelle, per i tipi della Ediesse editrice di Roma.   Il primo mi è caro per l’opera meritoria del ricordo dei valori e del sacrificio delle vittime della malapianta e mi gratifica perché contiene molti brani tratti da schede di alunni che io ho coordinato; il secondo mi è indispensabile perché mi inchioda alle mie responsabilità di uomo, di siciliano, di padre e di insegnante e mi mette davanti ad un’umanità dolente, tragicamente ferita, calpestata spesso nella dignità, drammaticamente privata degli affetti più cari e dinanzi alla quale non si può rimanere inerti o insensibili.   Felicia e le sue sorelle è un libro che non deve mancare in nessuna casa perché veicola valori fondamentali e perché è un buon libro: ben pensato e impostato, espresso in modo chiaro e , perciò, accessibile a tutti. Fresco, efficace, incalzante, commovente. Il lavoro di Gabriella narra la vicenda umana di venti familiari di vittime della mafia, quasi tutti donne, e attraverso esso si può leggere la storia dell’Italia repubblicana fino ai nostri giorni senza tuttavia dimenticare episodi del passato con quanti erano stati assassinati precedentemente.   Sono storie di madri, mogli, sorelle, figli diversi tra loro per estrazione sociale, educazione e cultura, accomunati da eventi tragici che hanno marchiato in modo indelebile la loro esistenza, imprimendole una brusca sterzata e maciullandoli nello spirito perché le ferite della carne rimarginano, quelle dell’anima no.   Ogni storia si riflette sulle altre e le completa; evoca – come dice nell’Introduzione G. Casarrubea – “mondi perduti, valori irripetibili, battaglie di uomini e donne, famiglie, collettività, per la libertà, i diritti fondamentali”.   Sono donne speciali, che non si sono mai abbattute nemmeno nei momenti più cupi, quando sono state lasciate sole, minacciate, intimorite, quando hanno temuto per i figli o sono state considerate pazze visionarie; donne che hanno resistito alla depressione, hanno vinto il mutismo; che si sono sentite rifiutate e respinte, ma sorrette da una forte tempra morale o da una profonda fede religiosa e negli ideali, nei valori per i quali si sono immolati i loro uomini; che hanno trovato una straordinaria forza per condurre una battaglia di civiltà contro l’ingiuria del tempo e l’incuria degli uomini che spesso dimenticano facilmente.   Sono “persone cariche di ferite inguaribili” (don Ciotti, a La Stampa del 21.03.06), che portano avanti con ferma determinazione, pur col lutto vivo nel cuore, una dura lotta contro l’oblio perché sanno che il modo migliore per ricordare i loro defunti è “applicare i valori che ci hanno trasmesso” (Simona Dalla Chiesa, nel libro), diversamente sarebbero morti per niente e noi li avremmo uccisi un’altra volta con il nostro silenzio.   Quello che emerge dal libro è, dunque, un messaggio chiaro, univoco,inequivocabile: Non dimenticare, ma coltivare la memoria, perché attraverso quelle vittime, attraverso la loro morte, passa il riscatto di tutti noi e, giustamente, pochi giorni fa, il Presidente Ciampi ricordava che a quegli uomini noi dobbiamo la nostra libertà, e GF Caselli: “ricordare con chi ha sofferto in prima persona è il modo per trasformare il dolore in un motore all’impegno e alla speranza; per crescere insieme, per andare avanti con la spinta morale del ricordo” (La Stampa del 21,03).   Nelle parole di queste donne può trasparire rabbia, desolazione, senso di impotenza e abbandono da parte delle istituzioni, ma non c’è rassegnazione, non c’è sete di vendetta, ma una forte attesa, un desiderio sacrosanto di giustizia.   Più che leggere venti storie – e qui sta la peculiarità del libro – sembra davvero di averle davanti, queste donne, e di sentirle parlare e restare meravigliati del loro coraggio, della loro forza d’animo e della capacità di guardare avanti, nonostante l’amarezza e la tristezza del ricordo.   Ma il desiderio di testimoniare, di dire che la speranza non è morta, di guardare fiduciose al futuro è più forte di ogni lacerazione della carne.   Il messaggio è perciò positivo e lo sarà sempre, nella misura in cui tutti ci convinceremo che la mafia è nemica mortale dei siciliani perché impedisce l’affrancamento della nostra terra e condiziona pesantemente l’avvenire dei nostri figli, che sono la cosa più preziosa di questo mondo.   “Cu’ cci lu faciva fari”? si sono sentite ripetere queste donne in riferimento all’azione dei loro uomini. Già! Chi glielo faceva fare? La loro essenza di uomini! Perché chi non lotta per la sua gente, per la sua terra, chi non si adopera per un futuro migliore per i figli non è degno di essere chiamato uomo.   Queste donne sono un esempio da imitare, come i loro cari trucidati perché noi “li abbiamo lasciati soli e non siamo stati abbastanza vivi”; vanno apprezzate per la lezione che ci impartiscono; il loro impegno va condiviso perché la mafia uccide, ma il silenzio pure.   Il nostro impegno dev’essere costante e non deve limitarsi a presenziare alla presentazione d’un libro, a partecipare a convegni o alle fiaccolate, ad esporre un lenzuolo o ad accendere una candela o ad indignarci dinanzi ad un nuovo efferato omicidio. Dinanzi alla guerra dei giusti non si può e non si deve rimanere neutrali, né si possono lasciare sole persone che conducono una battaglia di legalità e, perciò, di civiltà.   Ad esse va il nostro pensiero, la nostra stima,la nostra solidarietà, la promessa dell’impegno a coltivare la memoria, a richiedere giustizia e verità, come non si stancano mai di chiedere quelle altre donne meravigliose che sfilano ancora in Plaza de Mayo a Buenos Aires.   A loro il nostro ringraziamento per la lezione di vita; a Gabriella il nostro plauso per questo testo stupendo; a tutte un grazie sincero per l’apprezzamento dell’azione della Scuola.

La Scuola ha fatto tanto per scuotere le coscienze e continuerà a farlo; ma un esercito di insegnanti non basta se manca l’azione sinergica delle famiglie e delle altre agenzie educative. E’ opportuno parlarne in ogni occasione: a scuola, in piazza con gli amici, nei bar, nei circoli cosiddetti di cultura, ovunque. (Eugenio Giannone)