A Cassibile l'attesa replica de "Il conto delle lune" Il sogno di una madre |
Siracusa - Ad un attore, quando sale sul palco, si chiede di abbandonare la propria identità, di dimenticare di essere se stessi, e di interiorizzare il personaggio assegnato indossandone completamente i panni, prima con la mente, quindi con il corpo. Quanto più si riesce in questo esercizio tanto più il pubblico viene rapito, entra a far parte della storia, ne rimane coinvolto.
Effettivamente succede sempre così ad ogni replica de “Il conto delle lune”, il romanzo scritto dalla catanese Marina Doria e portato in teatro dalla figlia Egle e dal poliedrico Emanuele Puglia. Un’interpretazione autentica, di chi porta in scena se stessa, la sua esistenza, o comunque una parte importante di essa.
Nelle vicende di Mimì, la “carusa” siciliana che, stanca della sua quotidianità di miseria e malattia, abbandona la propria terra, volta le spalle al passato e fugge verso un futuro che non conosce, c’è probabilmente un codice comportamentale, un insieme di regole e consigli, che la madre le ha voluto tramandare, prima di lasciare prematuramente questo mondo.
Qualche sera fa, l'antico cortile de “La factory” di Cassibile ha rappresentato la scena naturale per la poesia di questa storia, ancora una volta in replica a Siracusa. L' ambientazione del luogo ha sottratto parte di lavoro agli scenografi. Sul palco solo alcuni sacchi di iuta, sedie di legno, tavoli, della frutta e antichi bicchieri, sistemati dinanzi ad un grande portone in legno, sovrastato da un cuneo ribassato, che un tempo sarà servito a custodire un capiente magazzino. Al primo piano due balconi, con le finestre alte, come i tetti delle stanze all’interno, e gli immancabili vasi sul davanzale.
Il testo è di fine ottocento, racconta di miniere di zolfo, una realtà un po’ distante dalla storia di questa parte della Sicilia, ma che è solo un pretesto per seguire il viaggio della protagonista alla scoperta degli infiniti sentieri della vita. Affiorano temi antichi, vecchi solo in apparenza, perché sciorinati uno dopo l’altro si riconoscono, invece, attualissimi. Si parte da Cianciana, un paesino in provincia di Agrigento, dove Mimì, interpretata da Egle Doria, vive lavorando, come tanti minori, nelle voragini senza luce delle miniere. E’ la ricorrenza di San Giuseppe quando si ripete la rituale ipocrisia dei giorni di festa, spuntano improvvise facce indorate di amicizia e panciute di generosità, giornate dei buoni sentimenti che si dissolvono al tramonto. I buoni propositi espressi solo per la forma, poi ognuno per la propria strada, sigillato nel personale egoismo. Soltanto chi condivide la medesima sorte può comprendere, come il severo sorvegliante della miniera, al secolo Emanuele Puglia, che intuisce la condizione di sfruttamento dei ragazzini senza futuro destinati all’anchilostomiasi, una malattia che lentamente corrode i capillari provocando un’anemia irreversibile che porta lentamente alla morte.
Emerge il tormento di una madre, celata sotto i panni della rispettabilissima donna Villalba, proprietaria della miniera, che agendo contro i propri interessi esorta Mimì ad andare via, a pensare al suo futuro, a farsi una famiglia. Un atteggiamento che la cinica freddezza gestionale di una fabbrica-miniera non potrebbe permettersi, ma che a una madre, generosa donatrice di vita, viene spontaneo, con dolore sì, ma con fiducia.
Ed ancora ci sono le difficoltà di una giovane donna che, per muoversi in sicurezza e con dignità, è costretta ad escogitare lo stratagemma del travestimento da uomo per avere una corazza protettiva con la quale muoversi agilmente nella società.
“Il conto delle lune nasce da una ricerca reale,” - racconta Egle Doria, “da studi fatti nel lavoro delle miniere grazie ai quali si è scoperto che anche le donne nell’800 vi lavoravano”. Per me questo spettacolo è un omaggio a mia madre, perché resti qui insieme a noi, ma è anche stimolante per i numerosi riferimenti all’attualità, il percorso di una donna, la ricerca del coraggio, le morti bianche, la possibilità di spingere i giovani al futuro, la necessità di travestirsi da uomo per evitare i pericoli, sebbene non sempre questo sia sufficiente. Oggi” – prosegue l’attrice – “ siamo tornati in una realtà dove è difficile essere donne, essere più libere, soprattutto in Sicilia stiamo vivendo in questo momenti tanti disagi. E quindi questo spettacolo potrebbe essere un messaggio da questo punto di vista: il coraggio di non fermarsi, di non avere paura rispetto a tutto quello che succede.”
Nella rappresentazione entrano in scena diverse figure con le quali Mimì si imbatte nel corso della fuga verso Catania, da dove partono le navi per l’America. Personaggi che consentono alla giovane di conoscere le diverse sfaccettature della vita e che sono impersonati solo dai due attori, quali effettuano abilmente sul palco i cambi organizzati dalla sapiente regia di Camillo Mascolino.
La madre superiora del convento che la ospita, lo sfortunato imprenditore don Calogero, caduto in rovina per l’incendio della sua azienda e della sua casa, ma rassegnato ad andare comunque avanti. La locandiera, donna Lisa che, vantando le qualità del suo vino rosso capace di scaldare la lava dell’Etna, le confida la drammatica realtà in cui è costretta a vivere, madre orfana del proprio figlio nato dal peccato. Lo spasimante, il nobile barone Fiordistella, glielo strappò in fasce per farlo crescere nel suo castello. Mimì lavora nella locanda e l' emancipata titolare le racconta pure, tra un faccenda e l'altra, del dramma dei bimbi appena nati abbandonati per strada affermando di non credere agli iettatori. “Quelli che ci credono sono babbi”, dice nella recitazione.
Infine il bravo cantastorie Renzino, che, nell’ultima parte della narrazione, ospita nel suo carretto Mimì accompagnadola fino a Catania, la città dell’Etna, della villa Bellini, dove c’è il passeggio degli “ziti”, la città azzurra perché bagnata dal mare. Catania, città di artigiani che costruiscono strumenti per bande musicali. Emanuele Puglia, con la sua chitarra, si diverte e allieta con un bel repertorio di canzoni popolari. “Si, è vero, sono un artista versatile, recito, canto l’Operetta, suono, ma la canzone popolare” – afferma compiaciuto allungando il mento – “è tutta un’altra cosa. La voce e l’anima si stringono e insieme danno forza ed energia”.
“Il personaggio di Mimì,” – aggiunge Egle Doria – “è forse quello che vorremmo essere tutti, una viaggiatrice che non ha paura, che non conosce ostacoli. Di personale penso ce ne fosse, sia nella vita di mia madre e in quello che mia madre mi ha insegnato. In realtà mia madre mi ha insegnato quelli che, nel testo, sono i sentieri infiniti della vita, con le tantissime sfumature che ho imparato da lei ad osservare. L’azione di Mimì che intacca su un rametto di ulivo ogni esperienza della sua vita, analoga al conto dei giorni e quindi delle lune, è quella che dovremmo fare tutti. Nella mia vita c’è questa ricerca,” – prosegue l’artista – “questo bisogno di viaggiare, di andare sempre a scoprire cose nuove e di migliorare questa condizione di donne emancipate che, fortunatamente, abbiamo quelli della nostra generazione”.
Quando la “carusa” arriva a Catania scorge finalmente il porto e le navi in partenza per l’America, il grande sogno. Sono poche le donne e tantissimi uomini a salire a bordo. La felicità di Mimì è ormai alle stelle, lei è raggiante, gli occhi luccicano, il sorriso risplende, mentre alcuni operai imbarcano pesanti casse, con una dicitura che a malapena riconosce: “Danger”. Sono contenitori di zolfo, il pericoloso minerale da cui Mimì era fuggita, scappata via, da sola aveva attraversato paesi, affrontato esperienze, aveva persino ingannato tutti dicendo che sarebbe partita dopo per non salutare nessuno e non provare il distacco della partenza. Ma riecco, inesorabile, il passato che torna al presente.
“Il passato deve essere sempre lo specchio in cui guardare per capire che cosa c’è di buono, - conclude Egle Doria – “il nostro passato ci deve sempre riportare al presente, non lo dobbiamo dimenticare, mai dimenticare chi siamo, da dove veniamo per capire dove vogliamo andare. Questa dovrebbe essere la regola della vita."
Lo spettacolo è stato prodotto dal Gruppo Teatro Onda e dall'Associazione Materiali vari, le scene sono di Federica Buscemi, i costumi delle sorelle Rinaldi.