Il Peso del silenzio è un poderoso volume che affronta un tema molto caro e comune a parecchi narratori siciliani e che si fa apprezzare per chiarezza di dettato e trattazione dei fatti, dai quali traspare tutta l’umanità dell’Autore, che affronta la materia proposta con distaccata partecipazione emotiva (fatica non facile, per i motivi che illustreremo a conclusione del nostro discorso) e la precisione dello storico di razza.

 E non poteva essere diversamente, visto che il Morreale ha insegnato per circa un quarantennio prima materie letterarie e poi Filosofia e Storia negli istituti superiori. Ora, in pensione, è fortemente impegnato nel sociale e riveste la carica di Presidente dell’Unione Italiana Ciechi di Agrigento, offeso anche Lui in quel preziosissimo bene.

   Cominciamo dal sottotitolo: “Famiglia lavoro stato e onore nella civiltà contadina della Sicilia postunitaria”. Dice tutto. Il libro è, infatti, un grandioso spaccato di quel periodo e si offre a numerose chiavi di lettura. Può essere considerato un romanzo di formazione, d’ambiente, una saga familiare, un poderoso saggio su usi, tradizioni e costumi della Sicilia ottocentesca, quindi un’opera antropologica, o un romanzo storico; in effetti è tutte queste cose assieme e andrebbe inserito nel filone dei Malavoglia di G. Verga, dei Vicerè di De Roberto, de I vecchi e i giovani di Pirandello, del Gattopardo di Giusepe Tomasi.

   Il romanzo è ambientato a Roveto, nome immaginario d’un paese della provincia di Girgenti, ma Favara, città la cui economia si basava sull’agricoltura e sull’estrazione dello zolfo, o Cianciana non fa differenza alcuna.    La narrazione è cadenzata, quasi a voler aderire ai ritmi ora compassati e lenti ora frenetici del lavoro dei campi; il tono è soft, affabulatorio. Il linguaggio, semplice ed estremamente musicale, procede al recupero di numerosi termini dialettali quali fleccia, pizzucu, mmidioculu, buffetta, bunaca, cufularu, ippuni e di talune espressioni, come ad es. na cruci di ‘a frunti, che noi di una certa età ricordiamo benissimo ma diventano ostrogoto per le nuove generazioni, che parlano un linguaggio che non so definire.    La vicenda inizia nel 1872 e si conclude subito dopo la 1ª Guerra mondiale.Essa ha per protagonista la famiglia di massaru Caliddu Paradiso e s’incentra, via via, sulla vicenda personale di Turiddu, terzogenito e secondo figlio maschio d’una numerosa prole. Si tratta di una famiglia di infaticabili e onesti contadini, tutti timorati di Dio, la cui sorte cambia allorché padre Antonio, parroco della Chiesa del Carmine, offre al massaru quattro salme di buona terra a due terraggi.  La narrazione procede incredibilmente sciolta, bella nella sua asciuttezza e si fa drammatica in alcuni frangenti come nelle pagine che descrivono il pesante e disgraziato lavoro in miniera, che mangia grandi e piccoli e dove gli zolfatari rimanevano intrappolati nel fumo, nell’acqua, nelle macerie, sottoposti a tristi condizioni di lavoro, soprattutto i carusi, dinanzi ai quali Turiddu avverte un profondo disagio ma di cui nessuno osa parlare, neppure dinanzi ad una morte tragica, perché “lu pani è duci” e chi comanda sa come attuppari la vucca a chi potrebbe e dovrebbe indagare o potrebbe parlare.

   L’Autore, nel dipanarsi degli eventi, ha modo di soffermarsi sui momenti che scandiscono la vita della comunità in occasione delle feste religiose, degli zitaggi e dei matrimoni, delle serenate notturne, sul rigido cerimoniale dei rapporti interpersonali, improntati al buon senso, sulla condizione femminile, sulle colpe dei padri che ricadono sui figli, sul triste fenomeno dell’emigrazione, sul lavoro dei campi che iniziava all’alba per concludersi al tramonto coinvolgendo tutti i membri della famiglia, sugli inconvenienti derivati ai Siciliani dalla recente unificazione nazionale, sulle prime avvisaglie del socialismo, sull’incipiente dottrina sociale della chiesa. Tutti temi, questi, che meriterebbero ampia trattazione ma che motivi di spazio ci inducono a trascurare.

   Dopo aver frequentato due anni la scuola elementare, Turiddu viene avviato, come tanti bambini della sue età e di quel tempo, al lavoro dei campi. C’era poco da scegliere: campagna, miniera o putìa.

   Con la sua opera e quella dei fratelli aiuta la famiglia a salire la scala sociale, suscitando invidie, risentimenti, rancori. Turiddu viene su forte, sensibile, orgoglioso, con un forte senso della famiglia, dell’onore e di giustizia innato; ha molti amici, suona da autodidatta la chitarra, è noto in tutto il paese, come il fratello Tanino, che s’è fatto prete.

   Un giorno, stanco di cedere a ricatti, angherie, intimidazioni, richieste di pizzo, prepotenze di delinquenti e desideroso di vincere il cerchio della solitudine, non più disposto a lasciarsi toccare nell’onore senza reagire, non nutrendo fiducia nella giustizia ufficiale, conscio dell’insegnamento del padre per cui non si deve bussare alla porta della caserma perché questo è contro la legge dei padri, “che fu fatta prima che noi nascessimo e si trova scritta nei nostri petti”, sceglie di aderire a nuvola, una cosca mafiosa che sa di primitivo e di barbaro, antisociale e antistatale. S’illude, come tanti hanno fatto prima e dopo di lui, che nuvola amministri la giustizia con senso di responsabilità, derima, prima e meglio della legge, le diatribe, il contenzioso tra paesani.

   E’ il falso e pernicioso mito d’una mafia buona, composta di gente d’onore e che, invece, è ancora l’infamia della nostra Isola.

    Il giudizio dell’Autore non lascia dubbi sulla sua nefandezza.

   Emerge, in queste pagine, una mentalità diffusa, un modo di pensare duro a morire per il quale non si doveva alcuna collaborazione al nuovo stato, che si era presentato con l’esattore delle imposte e il carabiniere per arrestare i renitenti alla leva, che durava tre anni, ed era visto come un nemico cui disobbedire era virtù. Recarsi in caserma era una grande vriogna, un indelebile marchio d’infamia.

   “Cu avi lu malu vicinu, avi lu malu matinu” e con Pasquale Cipolla le questioni non mancano. Un giorno del 1887 l’uomo viene ucciso e Turiddu, omertoso come tutti e che avrebbe potuto dire una parola per far prendere alle indagini un’altra direzione in grado di scagionarlo, tace: non si collabora col nemico! Viene, perciò, processato e condannato ai lavori forzati a vita nei bagni penali italiani.

   Dopo circa 33 anni il vero colpevole, sul punto di morte, confessa e Turiddu liberato. E’ ormai un uomo anziano, che in carcere ha fatto tesoro degli insegnamenti del cappellano e del fratello sacerdote, ha meditato sui suoi errori giovanili e ha scoperto la forza rivoluzionaria della cultura.    Nel frattempo la famiglia s’è ridotta sul lastrico, due fratelli sono emigrati in America, i genitori sono morti, consunti anche dalla pena per la sorte di un figlio in galera che hanno saputo sempre innocente. La conclusione è un inno alla libertà.

   Bene! La vicenda non è frutto di fantasia. Essa si riferisce alla figura di un vecchio prozio dell’Autore del libro, che per decenni ha sentito raccontare dagli anziani del paese quest’incredibile storia e che prima di accingersi a narrare i fatti ha interrogato nuove fonti, coperte di polvere nei vari archivi.

   La condanna d’un innocente - cosa che capita ancor oggi - è un dramma per il peso materiale e psicologico che comporta; lascia l’amaro in bocca ed è una sconfitta per tutti. Oggi, per fortuna, molte cose sono cambiate e a tutti viene concessa una possibilità in più, a tutti sono aperte le porte dell’istruzione, che ci rende più sensibili e finalmente non ci fa più apparire lo stato come un nemico. Il riscatto della nostra Terra, e questo è il messaggio del libro, passa attraverso la cultura, attraverso l’ampliamento dei nostri orizzonti mentali e cognitivi.

   Per concludere: un bel libro, che racconta le nostre radici, che è un museo della memoria, che ci inchioda alle nostre reponsabilità nel rispetto dei diritti e dei doveri e di cui tutti dovremmo possedere copia perché ci siamo dentro con i nostri pregi e i nostri difetti, le nostre ansie e le nostre idealità, le nostre fobie e le nostre certezze, la nostra essenza di siciliani.

                                              Eugenio Giannone

 

Calogero Morreale Il peso del silenzio

A. Siciliano ed., Messina, 2006, pp.479